Relazione di S.E. Mons. Nunzio Galantino

«I giovani ci chiamano a risvegliare e accrescere la speranza, perché portano in sé le nuove tendenze dell’umanità e ci aprono al futuro, in modo che non rimaniamo ancorati alla nostalgia di strutture e abitudini che non sono più portatrici di vita nel mondo attuale » (FRANCESCO, Evangelii gaudium, 108)

1. Le molteplici insidie a un esercizio autentico della libertà
GalantinoDa questa vostra iniziativa e dal titolo affidatomi mi sono sentito sollecitato a proporre una riflessione che, mi auguro, possa spingere nella direzione di un impegno consapevole e concreto; un impegno che faccia sentire i suoi benefici effetti nel nostro tempo e all’interno delle problematiche sociali e umane che l’attraversano.
Presentando questi giorni di formazione e di comune riflessione sul giornale diocesano, il vostro Vescovo ha preso in esame a più riprese il tema della libertà, sottolineando come, oggi, essa sia messa in discussione da più punti di vista, nonostante quanto scriveva E. Mounier: «Quando l’uomo non ama la propria libertà più di ogni altra cosa al mondo nulla egli detesta di più»1. Un’affermazione che, da una parte, riconosce l’importanza decisiva della libertà personale e, dall’altra, la configura come possibilità e come impegno dell’uomo ad essere se stesso. Il primo ambito nel quale va esercitata la libertà è infatti quello della vita personale.
In questa, come nella vita sociale, la libertà può incontrare e di fatto incontra impedimenti e/o facilitazioni, che fanno di essa una esperienza soggetta a crescere o a diminuire, a essere portata a pienezza o compressa, fino a rimanere talvolta schiacciata, annichilita, umiliata.
La negazione di una piena libertà può verificarsi anche sul piano religioso. E lo sanno bene i cristiani, che conoscono in tutto il mondo un nuovo e purtroppo lungo e drammatico periodo di persecuzioni. «A volte – scrive Papa Francesco nella Evangelii gaudium, 61 – [le sfide] si manifestano in autentici attacchi alla libertà religiosa o in nuove situazioni di persecuzione dei cristiani, le quali, in alcuni Paesi, hanno raggiunto livelli allarmanti di odio e di violenza».
Nel nostro contesto sociale, apparentemente aperto e rispettoso delle diversità, inneggiante alla libertà possibilmente incondizionata, i limiti alla libertà presentano il volto della crescente diffidenza nei confronti dei segni religiosi, e in particolare di quelli cristiani, spesso associati a una volontà di potenza, che contrasta palesemente con le molteplici opere di servizio e dedizione sociale da parte dei cristiani, diffuse ovunque. È così che il crocifisso, segno di umanità e di mitezza, di pace e di misericordia, è ritenuto un’insidia alla libertà religiosa, e si preferisce eliminare ogni riferimento che possa rimandare a una fede, più che valorizzare tali segni, come dimensione imprescindibile dell’esistenza umana, privata o associata.
Tutto questo limita la libertà, a causa di pregiudizi, di paure e di pericolose derive ideologiche. E, invece di favorire la conoscenza e l’integrazione, finisce col portarci nella direzione del temuto “scontro di civiltà”, da evitare a tutti i costi e con tutte le forze, attraverso l’apertura e l’integrazione.
Anche sul piano culturale assistiamo a una forte limitazione della libertà personale, quando la cultura dominante impone di fatto stili di vita e modi di pensare, ritenuti assoluti e imprescindibili. Tale tentativo di omologazione si avvale oggi di mezzi di comunicazione sempre più pervasivi ed efficaci, quelli che abbiamo tra le mani quasi ogni momento, che sono di per sé degli strumenti utilissimi, ma possono schiacciare le diversità e quindi restringere la libertà. «Viviamo in una società dell’informazione – osserva papa Francesco nella Evangelii gaudium, 64 – che ci satura indiscriminatamente di dati, tutti allo stesso livello, e finisce per portarci ad una tremenda superficialità al momento di impostare le questioni morali. Di conseguenza, si rende necessaria un’educazione che insegni a pensare criticamente e che offra un percorso di maturazione nei valori».
La mentalità consumistica, nella quale siamo immersi e che viene presentata come la vera anima del commercio e del benessere, si nutre di questa pretesa omologatrice, e suggerisce in ogni momento che, per vivere bene, si devono possedere certi oggetti, avere certe comodità e pensarla in un determinato modo. Una tale induzione dei bisogni, maliziosa e finalizzata al mero guadagno, genera nelle persone, e soprattutto nei giovani, aspettative sempre più alte, che presto o tardi verranno deluse, provocando insoddisfazione e, appunto, un senso di incompiutezza e di non libertà, procurato ad arte per spingere a consumare, ed estremamente dannoso per il soggetto.
Un’ultima insidia alla libertà, tanto più pericolosa in quanto sottile, è quella del relativismo culturale che, come ha suggerito il vostro vescovo, genera un’assolutizzazione, in palese contrasto con il suo principio ispiratore. Potrebbe sembrare che la mentalità relativista – oggi sbandierata da tanti quale segno di libertà e presupposto di civiltà e democrazia –, partendo dal presupposto che ognuno può pensare e agire come più gli piace, favorisca la libertà e il rispetto reciproco.
Al contrario, riscontriamo ogni giorno come, proprio a partire da questo assunto, si neghi la legittimità di posizioni diverse da quella dominante. In nome della libertà, si nega dunque la libertà di esistere a un’opinione diversa. É questo il meccanismo che troviamo ogni giorno riproposto nei confronti di chi avanza posizioni a sfavore dell’aborto, dell’eutanasia, della creazione e distruzione di embrioni, della prassi dell’utero in affitto, o che si oppongono alla banalizzazione del matrimonio e della famiglia. In tutti questi casi e in altri ancora, la mentalità oggi più diffusa tende a dichiarare illecite, in nome dell’assenza di assoluti, certe posizioni e certe idee generando, a loro volta, altri assoluti e traducendoli in leggi: queste, come avviene a più riprese sia a livello italiano che europeo, pretendono di assicurare diritti individuali, distorcendone però il significato, e rendendoli avulsi dai rispettivi doveri verso le persone e la loro dignità.

2. L’impegno come azione: essenza della democrazia e compimento dell’umano
Il quadro che ho tracciato finora ci ha aiutato a mettere in evidenza alcune delle insidie che dobbiamo affrontare nel nostro tempo. Il titolo assegnatomi suggerisce, come chiave per affrontare questi problemi e come risposta per contrastarli, l’impegno. É necessario però riscattare la dimensione dell’impegno dalle strettoie di una sua considerazione esclusivamente politica o viceversa ridotta a un generico «far qualcosa». magatti
Quando il filosofo francese Mounier parla di impegno – proprio perché collocato immediatamente nel cuore della essenza della persona – lo considera come la conseguenza del «riconoscimento della propria incarnazione» in un mondo che reclama dedizione, presenza e azione. Ma, quale azione contribuisce a costruire un tessuto sociale credibile, accettabile ed autenticamente libero? Innanzitutto un’azione che non si riduca a un generico «darsi da fare». L’azione «va intesa nel suo significato più comprensivo: da un lato essa indica l’esperienza spirituale dell’uomo nella sua integrità, dall’altro indica l’intima fecondità dell’essere […]. Quel che non agisce non è»2.
Mounier offre3 una diversificata tipologia dell’azione. In base ad essa il fare (poièin) è l’azione che ha per scopo principale quello di dominare e organizzare una materia esterna; essa va valutata in termini di efficacia. L’agire (pràttein) mira a formare colui che agisce, la sua abilità, le sue virtù, la sua unità personale. È l’etica vista come sforzo costante per il raggiungimento della verità e dell’autenticità, in vista di un impegno responsabile.
La contemplazione (teorèin), che non è un’evasione, ma «aspirazione ad un regno di valori che pervadano e sviluppino tutta l’attività umana»4.
L’azione contemplativa agisce su tutta la pratica attraverso la parola profetica che, contro gli inevitabili accomodamenti e le colpevoli compromissioni della storia, dà testimonianza dell’assoluto nel suo tagliente rigore. Quasi a completamento di queste indicazioni e in piena continuità con l’intera sua proposta, Mounier dedica poche righe alla dimensione collettiva dell’azione: una dimensione che converte all’impegno meglio di quanto non siano in grado di farlo i clamori dei solitari. Non si vuole con questo offrire alcuna giustificazione a deformazioni che caratterizzano alcune istituzioni educative, di indirizzo politico o religioso.
L’azione collettiva di cui parla Mounier mi pare decisamente lontana dal sonno delirante dei grandi ritmi unanimi, dalla rigidità passiva delle strutture militarizzate, dall’entusiasmo cieco e dall’opinione irresponsabile e prefabbricata. L’azione collettiva che, come si diceva sopra, converte all’impegno, poggia sul gusto dello scambio, del dialogo, dell’impegno, del giudizio e della diversità.

3. “Scendere in se stessi”: l’impegno per non perdere la libertà!
Tuttavia non ogni azione è un’azione valida. «Un’azione è valida ed efficace – avverte Mounier – solo se si è misurata prima con la verità, che le dà il suo senso, e con la situazione storica, che le assicura insieme la misura e le condizioni per la sua realizzazione.
Allorché da ogni parte, sotto il pretesto dello stato di emergenza, ci viene sollecitato di agire, non importa come e per qual fine, la cosa più urgente è quella di ricordare queste due esigenze fondamentali dell’azione e soddisfarle»5.
«Il primo dovere di ogni uomo – si legge nel Manifesto al servizio del personalismo comunitario di E. Mounier – […] non è quello di salvare la sua persona, (egli si limiterebbe in tal modo ad avere cura in qualche modo della sua individualità, mettendosi così da parte), ma è quello di impegnarla in ogni azione, immediata o lontana […]. La vita della persona, lo si vede, non è una separazione, una evasione, un’alienazione, essa è presenza e impegno (présence et engagement). La persona non è solitudine interiore, o un dominio circoscritto, al quale la mia attività potrà accostarsi dal di fuori. Essa è una presenza agente nel volume totale dell’uomo, tutta la sua attività vi è interessata»6.
occhettaSulla stessa linea si colloca L. Wittgenstein. Nei suoi Diari segreti si legge: «Per afferrare una verità bisogna sconvolgere false immagini, assunzioni superstiziose su se stessi, rompere gli schemi che ci schiacciano […].
Nessun uomo può produrre un’espressione che sia più vera di quello che egli effettivamente è, perché la forma dell’espressione genuina e originale è quella che si produce all’interno, dalla prospettiva interiore secondo la quale si guardano le manifestazioni della vita»7.
Certo, il filosofo tedesco riconosce la dolorosa fatica dello «scendere in se stessi» (in sich selbst heruntersteigen). Per l’uomo rimane però l’unica strada da percorrere, se vuole conservare lo spessore di coscienza e di protagonismo che gli assegna la storia. «Chi pertanto rinuncia per paura ad investigare il proprio inconscio, rinuncia anche al valore e all’indipendenza della sua esistenza; perde la propria libertà, diventa un vigliacco»8.

4. L’impegno come vocazione
Libertà e azione come impegno; quell’impegno che è la vocazione data da Dio all’essere umano, quando lo ha fatto custode della creazione – come ci riferisce il libro della Genesi (1,28) – e non semplice esecutore dei suoi comandi. Dovremmo riflettere di più su questa pagina biblica e farla nostra: creandoci, Dio non ci ha chiesto di obbedire a delle leggi; non è questo il rapporto che cerca con noi. Ci ha chiesto, invece, di prenderci cura della “casa comune”, dando a ogni cosa il suo nome e il suo posto. Ciò richiede fantasia, iniziativa, “spirito d’impresa”, esalta la libertà e ci rende simili a Lui, perché capaci di creare a nostra volta, nel rispetto del suo disegno su di noi.
Impegnarsi significa dunque partecipare e dialogare, allenarsi al rispetto e accogliere come un’opportunità di crescita la diversità dell’altro. La nostra società ha bisogno di persone, e soprattutto di giovani, che non si chiudano in se stessi, ma accettino il confronto e il lavoro comune, che si interessino dei problemi sociali e portino in essi il loro sguardo meno condizionato e realisticamente entusiasta. Un mondo a esclusiva trazione dei più anziani difficilmente sarà capace di futuro; lo diventa solo se i più giovani vengono messi in condizione di offrire il loro contributo, accettando la fatica e gli insuccessi.
La partecipazione si attua in più modi; e la prima via attraverso la quale essa si realizza è il lavoro, con il quale ognuno offre il suo contributo al bene comune.
Conosciamo bene, purtroppo, le difficoltà che toccano questa sfera della vita sociale, a causa delle piaghe della disoccupazione e dell’inoccupazione di tanti giovani e adulti.
Dobbiamo batterci allora perché ognuno possa lavorare, e quindi mettere in circolo le proprie capacità, senza sotterrarle per paura.
Dobbiamo/dovete usare con realismo la vostra fantasia e la vostra immaginazione; essere positivi e audaci; mai rassegnati, perché la vita è una ed è adesso, non in un altro tempo, che il nostro mondo potrà essere migliore. Ma dobbiamo costruirlo.
La Dottrina Sociale della Chiesa – della quale come sapete il vescovo Toso è tra i più esperti – ci spinge all’impegno quando parla, oltre che del valore della partecipazione, del principio di sussidiarietà. È un antico principio di derivazione filosofica, che la Chiesa ha sapientemente inserito nel suo insegnamento sociale, e che è stato fatto proprio da tante istituzioni, non ultima quella europea nella sua Costituzione. Esso, in poche parole, insegna che in un corpo sociale, le strutture superiori non devono depotenziare e annichilire quelle inferiori, occupandosi di ciò che esse stesse potrebbero fare, ma devono far sì che esse svolgano tutti i compiti di cui sono capaci.
Così, lo Stato non deve fare ciò che possono fare le associazioni, i gruppi, le famiglie o i singoli, poiché si troverebbe ad avere troppo lavoro, e diventerebbe lento e burocratizzato (come ben vediamo nel nostro Paese), privando di iniziativa i corpi intermedi e di soggettività il corpo sociale. Al contrario, lo Stato è chiamato a generare, favorire e sostenere l’iniziativa ai livelli inferiori. Ma non voglio qui tentare di esaurire il tema così ampio e articolato del principio di sussidiarietà. Lo affido invece al vostro approfondimento, poiché dalla sua applicazione dipendono il buon esito della società e la necessaria circolazione dei doni individuali. Solo così la libertà non sarà schiacciata, e la democrazia sarà ben più che procedurale; sarà una democrazia reale e costruttiva.

5. La luce della Pasqua e la via della misericordia
Per quel che ci riguarda, l’invocato impegno nel mondo deve essere animato e sostenuto dalla fede, che mai dobbiamo nascondere e dalla quale, anzi, deve essere illuminato il mistero dell’uomo. Il Concilio Vaticano II ci ricorda che viviamo immersi in un mistero, cioè in qualcosa di più grande di noi, che ci deve essere svelato perché lo possiamo conoscere in pieno. In Gesù, continua il Concilio nella Costituzione Gaudium et spes (n.22), viene illuminato il senso della vita dell’uomo, ed egli mostrandoci il volto di Dio ci rivela che siamo figli, che siamo frutto di un progetto di amore e che diventeremo eredi del regno di Dio. toso
Non è certo la stessa cosa affrontare la vita a partire da questa consapevolezza! La Pasqua che stiamo celebrando in questi giorni e che la Chiesa canta per cinquanta giorni non è un evento che si attua fuori di noi. Attraverso di essa – ci ha detto il papa nel messaggio del giorno pasquale – «il Signore (…) ci rende ora partecipi della sua vita immortale e ci dona il suo sguardo di tenerezza e di compassione verso gli affamati e gli assetati, i forestieri e i carcerati, gli emarginati e gli scartati, le vittime del sopruso e della violenza »9. La Pasqua ci comunica allora la misericordia di Dio e ce la insegna, poiché ci unisce a Gesù e ci trasmette la sua stessa vita, il suo Spirito, la sua carità.
Nascono da qui relazioni nuove basate sulla comprensione vicendevole e sulla solidarietà, che sola è capace di generare la pace, mettendo a frutto il bene già presente tra noi e i doni di ognuno. Ma è a questa scuola che impariamo la difficile arte dell’essere accoglienti e aperti in un Paese e in un’Europa continuamente esposti alla tentazione di rinnegare – come siamo costretti a registrare – i principi di civiltà che l’hanno fondata.

 Mons.Nunzio Galantino
Segretario Generale
Vescovo emerito di Cassano all’Jonio

1 E. MOUNIER, Che cos’è il personalismo?, AVE, Roma 200414, 82.
2 E. MOUNIER, Il personalismo, cit., 121.
3 Ivi, 121-132.
4 Ivi, 126. La Contemplatio (= convivere con il templum, stare nel templum, entrare nel templum) comporta meraviglia e questa meraviglia costituisce l’inizio della conoscenza della verità (Aristotele), l’inizio del passaggio dall’ignoranza alla verità e quindi, possiamo dire, l’inizio della conversione.
5 E. MOUNIER, Manifesto al servizio del personalismo comunitario, Ecumenica, Bari 1975, 70.
6 ID., Manifesto al servizio del personalismo comunitario, cit., 70.
7 L. WITTGENSTEIN, Diari segreti, introduzione di A. Gargani, Laterza, Bari 1987, 14s.
8 Ivi, 34.
9 FRANCESCO, Messaggio Urbi et orbi, del 27 marzo 2016.