Relazione alla Scuola di Pace, Roma 15-17 giugno 2012
Simone Morandini*
PREMESSA È sempre un piacere ragionare di questioni così vitali, ma ancor più è bello farlo a partire da un libro in cui si cerca di dare forma a pensieri ed a ricerche. Ed è bello farlo in un contesto francescano, col quale ho una particolare consonanza anche per la mia formazione, che ha avuto un momento importante negli studi presso l’Istituto Ecumenico S.Bernardino che fa capo alla Provincia Veneta dei Frati Minori, dove ora sono docente. Sono i giochi del dare e ricevere che attraversano la nostra vita. È la prima volta che sono chiamato a parlare di un tema a partire da un libro, ma mi limito in apertura a richiamare la struttura del testo “Abitare la terra, custodirne i beni” (Ed. Projet, Padova 2012), in modo che chi ascolta possa capire ciò che tocchiamo in questo intervento e ciò che invece può essere visto in una lettura successiva. Il libro è articolato su quattro sezioni, quattro grandi aree.
La prima parte riflette su che cosa interpella le religioni, in che modo esse, ed in particolare la fede cristiana siano interrogate dall’analisi ecologica. È una sezione di apertura nella quale però si danno anche alcuni contenuti specifici: che cosa vuole dire oggi costruire un’etica teologica della creazione? come possiamo ripensare alcune radici della situazione che abitiamo per ricercare di evolvere? La seconda sezione, più che il mondo della teologia, ha come interlocutore le filosofie ambientali: le posizioni cosiddette ecocentriche, biocentriche. Nei loro confronti ho alcuni spunti critici, preferendo invece un’etica della sostenibilità. Si tratta, dunque, di un approccio antropocentrico se vogliamo, ma un antropocentrismo abbastanza particolare, non certamente quello assoluto della modernità, di cui diremo alcune cose, ma un antropocentrismo che potrebbe essere quello di Francesco sotto certi aspetti. La terza e quarta parte propongono due approfondimenti.
La terza propone la riflessione sui beni della terra, articolando cioè quella vasta problematica che è la questione ecologica; tanto vasta da richiedere una enciclopedia più che un libro… Ho ritenuto quindi di soffermarmi soprattutto su alcune aree oggi particolarmente critiche: acqua, energia, mobilità, ma anche la valorizzazione di quella dimensione così importante per un paese come il nostro, che è l’ambiente in quanto paesaggio. La terra, infatti, non è solo un insieme di risorse, è anche una visibilità, un dono per lo sguardo, prima ancora che per la nostra vita. Una varietà di aree, dunque, nelle quali ci si trova a declinare cosa significhi essere abitatori della terra in un modo responsabile. La quarta sezione, infine riguarda alcune note di educazione ambientale: cosa può voler dire educare all’ambiente e quali siano i soggetti coinvolti in questa prospettiva (scuola, famiglia, pastorale), perché ci accorgiamo sempre più che una dimensione strategica delle azioni della custodia del creato è quella educativa. Non voglio cedere alla tentazione di ridurre ogni problema alla dimensione educativa; ogni problema ha una sua densità specifica, una sua complessità specifica. È vero, però, anche che ogni problema è anche educazione e in modo particolare è importante la dimensione educativa per la questione ambientale, perché in gioco è lo sguardo, il tipo di sguardo che noi gettiamo sulla terra. Fin qui la mappa del volume; io mi sono proposto uno schema di relazione nel quale percorreremo alcuni sentieri, che in parte la seguono, in parte incrociano e attraversano le prospettive da esso delineate. Chi desidera approfondire ulteriormente, avrà ampio spazio per farlo attraverso la lettura personale.
1. ABITATORI DELLA TERRA
Questa espressione mi pare costituisca un leit motiv che dobbiamo far nostro per imparare ad essere amici e custodi della terra. Occorre prenderne atto fino in fondo, superando quelle contraddizioni che spesso talvolta porta in sé una spiritualità cristiana – per fortuna non quella francescana – che ci vuole fondamentalmente costituiti di un anima, cui è dato di abitare un corpo. Dobbiamo abituarci a pensare in modo più unitario la nostra realtà umana: siamo corpi (certo animati), siamo soggettività creatrici che si esprimono sempre soltanto attraverso il corpo e la nostra realtà personale è sempre profondamente radicata nella terra. In tale prospettiva impariamo, quindi, a sentirci profondamente terrestri, recuperando quell’intuizione che ci offre già il testo di Genesi 2: Adam non è il nome proprio del primo uomo, ma il nome di colui che è tratto dall’adamà (la Terra); andrebbe tradotto come il terrestre, il terroso, il terrano.
Dice la realtà di un essere che viene dalla terra, ma che è contemporaneamente posto in una posizione assolutamente singolare rispetto ad essa e rispetto a colui che della terra è il Creatore, il Signore. Bella l’immagine del Dio vasaio che ci consegna Genesi 2, con la creazione dell’uomo nel quale viene insufflato lo spirito che è un dono di Dio. È la stessa prospettiva dell’altro racconto, di Genesi 1: l’uomo è creato nello stesso giorno degli animali ma ad “immagine e somiglianza” del Creatore. Solidarietà quindi, radicamento nella terra, radicamento nella complessa struttura che è il mondo della vita e contemporaneamente eccedenza rispetto alla varietà delle altre creature. Abituiamoci, dunque, a tenere insieme le due dimensioni, ricordando che purtroppo talvolta la teologia e la spiritualità cristiana si sono trovate così impegnate nella difesa della preziosa singolarità spirituale dell’essere umano, da temere che una piena valorizzazione della dimensione corporea e di quella ecologica del nostro essere, mettesse a rischio l’altro aspetto.
La riscoperta degli ultimi decenni – una saggezza che i nostri padri, da S. Francesco e i suoi discepoli, ma prima ancora gli stessi scrittori biblici conoscevano bene – è quella di far nostra invece una visione fortemente unitaria degli esseri umani. Soltanto se ci pensiamo così – come corporei e terrestri, come esseri bisognosi dei beni della terra – possiamo affrontare in modo adeguato la questione ambientale. Nel corso di questa mia relazione certamente prenderò posizione contro certi stili di vita consumistici che la modernità ci ha lasciato in eredità, ma è un passaggio che possiamo fare seriamente soltanto se comprendiamo che – in quanto viventi – noi siamo necessariamente consumatori di beni. Se fossimo puri spiriti, come gli angeli, vivremmo della contemplazione di Dio e questo ci basterebbe; in quanto invece siamo esseri fatti di carne e sangue noi abbiamo bisogno di cibo, di energia, abbiamo bisogno di una casa che ci consenta di dimorare.
Il problema è quello di come ci procuriamo questi beni, di come diamo forma all’ambiente attorno a noi, in modo tale che esso ci assicuri ciò che ci è necessario per vivere; esso, però, viene affrontato adeguatamente solo da chi prende sul serio la dimensione corporea degli umani. La prospettiva di Francesco coglie l’uomo nella fraternità delle creature, come creatura in mezzo ad altre creature, pur con le sue specificità, come creatura che vive dei servizi che le altre creature le rendono; questa prospettiva offre buoni strumenti. Tutto il Cantico delle Creature dice questo, quando parla del sole, della luna, della terra, di tutti i viventi che l’un l’altro in qualche modo si sostengono. Io credo, anzi, che questa sia una dimensione fondamentale che caratterizza le diverse espressioni di quel mondo religioso che pure talvolta viene accusato di favorire la fuga dalla terra, di portare come in un oltremondo.
Non penso che questo sia vero, anche se certamente ogni esperienza religiosa ha la sottolineatura di Dio che è Altro, che è quella luce che non proviene da questo mondo e di cui noi partecipiamo in qualche misura, cogliendo una dimensione di interiorità, di misteriosità. Tuttavia accentuare solo questo aspetto sarebbe gravemente impreciso: quanto meno per la prospettiva biblica, quel Dio che è il Santo – alterità profonda e misteriosa – è anche il Creatore del mondo, colui che in esso si manifesta e che ad esso da forma, colui che con il suo Spirito ogni giorno rinnova la faccia della terra. Quindi certamente la religione parla anche di un altrove ed in particolare la fede cristiana confessa un Dio che nessuno ha mai visto, che non è identificabile con nessuna delle creature, né il sole, né la luna, né l’uomo, ma si tratta anche di un Signore che attraverso la pluralità delle creature, si manifesta, si fa conoscere, si rende presente, viene ad incontrarci.
Quanto prezioso, quanto essenziale è un tema come la custodia del creato per chi vive così la spiritualità cristiana, tenendo assieme in dialettica la dimensione dell’andare oltre, del cercare sempre il nuovo e contemporaneamente la dimensione della gratitudine per il dono già ricevuto, incomparabilmente prezioso. Qui trova solido radicamento una pratica di custodia del creato ed una spiritualità che orienta ad essa. Un elemento non certo indifferente alla dimensione religiosa, che anzi sfida in modo forte le religioni perché noi siamo quelli che hanno potuto conoscere la fonte della vita, comprendere la ricchezza dei suoi doni, percepire quanto preziosi essi siano. Il percepire è certamente un dato che ci viene anche dall’esperienza di questi ultimi decenni, un percepire che coglie anche quanto drammaticamente noi siamo in grado di mettere a rischio tali doni.
Chi vive questa esperienza di Dio come la fonte della vita, come il Creatore di un mondo nuovo, percepisce insomma in modo particolarmente acuto la crisi ecologica che viviamo come punto di svolta dell’esperienza dell’umanità. Qualcuno parla di catastrofismo, ma temo che non si renda conto che stiamo intaccando lo splendore della creazione divina. Giovanni Paolo II, che non può sicuramente essere accusato di catastrofismo, sottolineava che le chiese cristiane devono accompagnare e sostenere quella “conversione ecologica” che finalmente in questi anni l’umanità sta avviando, conscia del baratro verso il quale si stava dirigendo. Non è catastrofismo ma capacità di leggere i segni dei tempi e la loro problematicità per costruire comportamenti che siano all’altezza delle sfide che si pongono.
2. LEGGERE LA CRISI AMBIENTALE
La crisi ecologica è una realtà e una realtà drammatica. Benedetto XVI nel Messaggio per la Giornata della Pace 2010 sottolineava come vi siano persone che stanno morendo per essa, persone che soffrono, persone costrette ad abbandonare la loro patria, come vi sia una vera sofferenza della terra. Cerchiamo di capire qualcosa di questa esperienza che è esperienza inedita, di questi ultimi decenni, forse degli ultimi cinquant’anni. A partire dal 1960, infatti, si comincia a capire che non c’è soltanto una minaccia che investe alcune specie di animali, alcuni habitat ma ci troviamo di fronte a una condizione dell’intera famiglia umana. Questi ultimi cinquant’anni hanno visto un intensa riflessione in questo ambito, una ricerca di soluzioni in ambito tecnico, economico, politico, spirituale. In questo senso ci troviamo ad interrogare in modo diverso anche le nostre tradizioni di significato, pur ben consci dei moniti di chi, ad esempio, mette in guardia contro la tentazione anacronistica di fare di Francesco un ecologista.
Non è però certamente indebito interrogare la tradizione biblica, interrogare le tradizioni spirituali – inclusa quella francescana – per capire come esse possano aiutarci a vivere questa inedita esperienza della famiglia umana. Articoliamo perciò questa nuova e inedita esperienza che la famiglia umana sta vivendo: quando diciamo crisi ambientale, crisi ecologica a che cosa ci riferiamo? Non intendo proporvi un esame analitico, o una lista dei problemi ambientali, ma solo alcune indicazioni, alcune chiavi di lettura che ci aiutano ad organizzare questa complessa esperienza che noi viviamo nel tempo della crisi ecologica.Quattro direzioni in particolare: polarità risorse-rifiuti, polarità locale-globale, crisi ecologica almeno in parte antropogenica, questione di giustizia.
a) Polarità risorse-rifiuti
In primo luogo la crisi ecologica è una crisi che ha due direzioni fondamentali perché due sono i modi fondamentali in cui noi viviamo i nostri rapporti con i beni della terra. Per noi la terra è fonte di risorse preziose, in primo luogo cibo, energia, acqua ecc.. e d’altra parte discarica nella quale noi riversiamo i sottoprodotti della nostra esistenza personale organizzata (un ambito del quale non si parla mai). Non c’è dubbio, non si può parlare di questioni ecologiche se dimentichiamo che noi, oltre che bisognosi di risorse, siamo anche produttori di rifiuti nella varietà degli ambiti che copre questo termine. Dall’ambiente intorno a noi preleviamo preziose risorse a basso contenuto entropico, le utilizziamo per dare forma a quello spazio ordinato che è la nostra società, la nostra convivenza e scarichiamo nell’ambiente naturale risorse invece ad alto contenuto entropico. Gli esseri umani hanno portato l’ampiezza di questa dinamica ad una scala assolutamente incomparabile rispetto a qualunque altra specie vivente, ad un livello tale da aver messo pesantemente sotto stress l’intero ecosistema planetario. Quindi queste due direzioni, sia quella delle risorse che quella dei rifiuti, sono la prima coppia con la quale vorrei caratterizzare la crisi ecologica.
Vorrei anche dare alcuni esempi. Sul versante delle risorse, pensiamo a tutta la questione del petrolio, risorsa energetica fondamentale per le società attuali, ma anche risorsa a rischio di scarsità. Sull’altro versante, sul versante dei sottoprodotti, possiamo citare ad esempio l’aumento dei livelli atmosferici di anidride carbonica da cui dipende in vasta parte il mutamento climatico che sperimentiamo. Sono due esempi paradigmatici ed in particolare il mutamento climatico è di per sé un problema ambientale, ma è in realtà una sorta di meta-problema, nel senso che ad esso sono collegati anche vaste questioni, come quella dei rifugiati ambientali con la questione idrica. La disponibilità d’acqua in una zona o in un’altra è drammaticamente legata anche al mutamento climatico in atto.
b) Polarità locale e globale
La crisi ambientale è crisi locale e lo è drammaticamente in determinate aree; in alcune città, ad esempio la concentrazione di polveri sottili ha superato livelli di guardia ed impatta pesantemente sulla salute degli abitanti della zona. Contemporaneamente, però, essa è eminentemente globale; anche qui evochiamo il mutamento climatico, questione della quale (pur in maniera diversa) tutti gli abitanti del pianeta sono responsabili, e della quale tutti in maniera diversa avvertono le conseguenze. Altre sono le emissioni di anidride carbonica di un abitante degli Stati Uniti e dell’Europa industrializzata, altro è quanto può produrre un abitante di un paese dell’Africa Sub sahariana, il cui consumo di energia è una piccola frazione.
D’altra parte altro è anche il modo in cui il mutamento climatico viene sperimentato in Alaska dove il riscaldamento significa lo scioglimento del permafrost (e quindi le case e le strutture non sono più stabili); altro è il mutamento climatico a Venezia per l’innalzamento del livello del mare. Altro ancora, poi, è il modo in cui sperimenta il mutamento climatico un abitante della zona sub-sahariana, per il quale l’innalzamento di qualche grado della temperatura del pianeta può significare semplicemente la definitiva inabitabilità della sua terra che lo costringe a lasciarla: in alcuni casi coloro che cercano rifugio sulle nostre coste, sono coloro che stanno pagando pesantemente i cambiamenti climatici di cui noi portiamo una significativa responsabilità.
Fenomeni unitari che si manifestano con caratteristiche diverse in diversi luoghi, ma che non per questo sono meno globali. In essi sperimentiamo la costitutiva unità della famiglia umana, questo grande tema della Gaudium et spes e del Magistero post-conciliare. Davvero dobbiamo abituarci a pensare agli esseri umani non come un insieme di individui più o meno correlati, ma come famiglia umana, cogliendo tutta l’inedita concretezza che la crisi ecologica conferisce a tale espressione.
c) La crisi ecologica come realtà (almeno in parte) antropogenica
È pure importante sottolineare che la crisi che viviamo non è un fatto casuale, non è la mera espressione di un’evoluzione geologica della storia del pianeta, ma è in misura determinante un fatto legato a comportamenti degli esseri umani e delle società a cui essi danno forma. C’è una bella espressione del Premio Nobel per la chimica Crutzen, il quale afferma che il tempo in cui viviamo dovrebbe essere denominato antropocene. Il linguaggio è quello della geologia, ma qui viene usato per dire come il tempo che viviamo è quello in cui ormai sono gli esseri umani e le loro società il principale fattore nel costruire il futuro della vita, persino della geologia del pianeta. Mutamento climatico significa in effetti che ormai stiamo andando a intaccare quello che anche soltanto per 4-5 generazioni fa era uno sfondo immodificabile su cui la vita si realizzava.
d) Giustizia
La convergenza delle tre dimensioni succitate va infine collegata con una dimensione di giustizia perché la crisi ambientale si manifesta in forme drammaticamente inique. Sono interi paesi la cui vivibilità è messa a repentaglio e spesso sono i paesi che meno hanno contribuito e meno stanno contribuendo al mutamento climatico. Ci sono paesi che pagano prezzi altissimi per le estrazioni di quelle risorse minerarie che vengono utilizzate dalle società avanzate. Ecco quindi che la dimensione di giustizia si intreccia con le tre precedentemente segnalate. Essa si carica poi di una drammatica valenza morale, nel momento in cui è in gioco la vita delle persone nella concretezza del loro essere figli della terra. Nel momento in cui questo dipende anche in modo significativo dal comportamento degli esseri umani, allora emerge l’interrogativo morale: che dobbiamo fare?
Quali comportamenti dobbiamo mettere in opera? Quale forma possiamo e dobbiamo dare alle nostre società per sfuggire a questa stretta? Quali stili di vita siamo chiamati ad assumere? Qui si colloca il motivo per cui spesso ci troviamo a ragionare di crisi ecologica. Non è una moda (diventare un po’ “verdolini”), ma la percezione di una questione che interpella drammaticamente tutti quanti, rispetto alla quale dobbiamo ridefinire i nostri comportamenti, ma prima ancora il nostro modo di essere uomini e donne.
3. UNA FIGURA ANTROPOLOGICA
Quale figura antropologica sta dietro a questa drammatica situazione nella quale ci troviamo? Non c’è dubbio che una parola che attraversa la storia dell’Occidente a partire dalla modernità e che indubbiamente ha molto a che fare con la crisi ecologica è la parola dominio. Una parola che ha pure molto a che fare con il modo in cui l’Europa si è atteggiata nei confronti con gli altri continenti. Nell’anno 1492 con la scoperta dell’America uno degli elementi che emergeva era proprio l’atteggiamento del dominio come caratterizzante l’europeo nei confronti del “selvaggio”, ma anche contemporaneamente nei confronti delle risorse del nuovo continente. È davvero paradigmatica la rilettura in questo senso della scoperta dell’America, capire come è cambiato il nostro rapporto con i beni della terra.
La dottrina della proprietà privata nasce con Locke, nasce in Europa, ma è proprio nei vasti spazi del continente americano che trova una delle sue vaste declinazioni: la terra non è di nessuno, le popolazioni indigene non hanno titoli di proprietà da esibire (cartacei) e quindi, non essendo di nessuno, non è altro che risorsa a disposizione di chi desidera utilizzarla. Qui si dispiega questo atteggiamento di individualismo proprietario, come lo definisce Pietro Barcellona, che caratterizza tanta parte dell’Occidente. Ma se la terra non è altro che un insieme di risorse a mia disposizione, io sono autorizzato, quasi chiamato ed impegnato a servirmene secondo i titoli di proprietà che ho su di essa, ma senza alcun altro vincolo.
Ancora oggi ci troviamo di fronte ad una delle tristi conseguenze di questo tipo di mentalità: quando a livello di trattati internazionali si propone di introdurre vincoli al commercio in base a parametri ambientali – secondo le indicazioni di molte organizzazioni internazionali e della stessa Unione Europea – la prima risposta è che si sta violando il diritto di proprietà, il diritto di libero commercio, come se esso possa essere così assoluto da andare a confliggere contro quello ben più fondamentale alla vita degli esseri umani e della famiglia umana.
Non c’è dubbio, insomma, che tale ius utendi et abutendi nei confronti dei beni della terra – a prescindere da ogni responsabilità sia nei confronti della terra stessa, sia nei confronti degli altri soggetti – sia una delle matrici concettuali più forti a cui dobbiamo la crisi ecologica attuale. Qualcuno ritiene, anzi, che questo atteggiamento di dominio abbia una matrice biblica nel testo di Genesi 1,27-28 in cui l’uomo viene creato perché domini sugli altri animali e soggioghi la terra. In realtà credo che una serena lettura mostri che il messaggio della Scrittura ebraico-cristiana è un messaggio di radicale portata ecologica; lo stesso termine “dominio” dovrebbe essere tradotto in modo diverso: rimanda piuttosto alla figura di Re pastore, che ha una responsabilità nei confronti della terra e dei suoi abitanti. Non c’è dubbio, però, che a partire da questo testo – pur letto in maniera distorta – la modernità occidentale ha costruito questa ideologia del dominio. Recuperare una sana spiritualità della terra significa anche spezzare quest’ambiguo legame tra individualismo proprietario e logica della Scrittura.
4. DIVERSO PENSARE
Proviamo, dunque, ad individuare alcune direzioni che possono essere utili per ricercare un tale diverso pensare, capace di vivere in modo responsabile il tempo dell’ecologia.
a) Rispetto della terra.
Più che dominatori della terra, noi dovremmo esserne in primo luogo innamorati, recuperando quella grande tradizione di cui Francesco è stato certamente uno degli esponenti più caratteristici, ma che potrebbe trovare analogie ad esempio nella grande tradizione del cristianesimo orientale, da Serafino di Sarov – che di Francesco è stato quasi un corrispondente in Oriente – a Isacco di Siro, con il suo appassionato amore rivolto alla creazione. La creazione, infatti, è lo spazio in cui ci si rivela Dio, ma prima ancora si caratterizza per la sua bellezza, per la sua vitalità; per una preziosità, che dovrebbe catturare il nostro sguardo. Innamorati della terra, dunque, e contemporaneamente innamorati del suo Creatore: impariamo a tenere assieme queste dimensioni. Qui potremmo richiamare la figura di Teilhard de Chardin, con la sua grande passione per la terra, colta nella sua dimensione evolutiva, nella sua materialità proprio come punto a partire dal quale vivere il nostro cammino di vicinanza al Creatore. Avremmo bisogno di ritrovare una mistica che sappia essere contemporaneamente ecologica, la mistica di chi sa di essere creatura all’interno di una creazione e proprio per questo vivere profondamente la dinamica della gratitudine, della lode in solidarietà con tutte le creature. Solo gli uomini e le donne, in effetti, possono esplicitare le parole della lode, possono vivere la loro lode dando voce a tutte le creature, facendosi voce di esse; c’è in tal senso una bella immagine nella tradizione Orientale che parla dell’uomo come sacerdote della creazione, colui che la porta innanzi a Dio dando voce a quella muta lode che essa gli rivolge.
b) Custodia responsabile.
Una terra che in questo momento vive in una situazione di crisi, una terra depredata, vittima di un individualismo proprietario che sembra ormai essere forma del sistema economico mondiale: in questo contesto siamo chiamati ad operare come custodi della terra con due atteggiamenti fondamentali. Il primo è quello della solidarietà con la terra e con coloro che la abitano, in primo luogo con gli uomini e le donne. A differenza dell’individualismo proprietario, essere custodi della terra si può fare solo privilegiando le relazioni – quelle interpersonali, quelle sociali (io sono in relazione anche con persone che neanche mai conoscerò e tutto questo non mi rende meno responsabile; nel sociale ci mettiamo dentro anche l’economico, il culturale…), ma anche quelle ecologiche. Noi siamo anche il frutto di un ecosistema, siamo il frutto di un’evoluzione biologica; dobbiamo portare con noi solidalmente tutta la rete di relazioni che ci costituisce. Portare la solidarietà, dunque portarla nel segno della responsabilità, questa è la grande parola, l’atteggiamento di chi, di fronte al grido che giunge dal reale, si protende a rispondere.
Questo è un tema caro alla filosofia contemporanea (tema caro alla filosofia di Levinas, di Ricoeur, di Jonas…), ma è fondamentalmente un tema biblico. Chi, infatti, viene indicato da Gesù come la figura primaria del ben operare? Il samaritano, il quale si imbatte in un uomo bisognoso e di fronte ad esso risponde, interrompendo persino il suo viaggio per prendersene cura, portarlo alla locanda, curarlo lui personalmente e alla fine lasciare del denaro per ciò che gli servirà in seguito. Questa è la responsabilità: un evento di fronte al quale sono disposto a rimodulare il mio comportamento, a rispondere con buone pratiche al grido che mi giunge. Credo questo sia il primo atteggiamento fondamentale che noi dobbiamo assumere per diventare custodi della terra. Non sono molto convinto che sia giusto parlare di “diritti della terra”, preferisco piuttosto parlare di una cogente, vincolante responsabilità che noi soggetti umani abbiamo nei suoi confronti.
Ma l’etimologia latina di responsabilità non rimanda solo a rispondere, ma anche a rei pondus, il peso della cosa. Siamo cioè chiamati a ponderare attentamente la complessità di questa questione, a coglierne la rilevanza, a comprenderne le implicazioni. Se la figura del samaritano ci mostra soltanto la realtà improvvisa che richiede una risposta necessariamente immediata, la parola responsabilità aggiunge anche la necessità dell’esame analitico, per cogliere la complessità e saper fare discernimento. E poi essa dice anche la capacità di responsare, sponsare, evocando quel verbo che dice dell’unirsi ad un’altra persona per il legame di una vita. Responsabilità è il rispondere immediatamente ed è il ponderare, ma è anche l’agire tenacemente attraverso la continuità dell’esistenza.
Non a caso parliamo di stili di vita come di una dimensione qualificante del nostro agire con l’ambiente. Può essere utile scendere in piazza ad es. per l’acqua, dire no alle centrali nucleari ecc. (bisogna saper rispondere), ma una delle prime dimensioni del nostro impegno per l’ambiente deve essere un profondo rinnovamento dei nostri stili di vita nel segno della capacità di consumare poco, capacità di essere leggeri sulla terra. È l’intera esistenza l’ambito in cui si declina questa responsabilità nei confronti della terra. Un ultimo aggancio al tema della responsabilità: essa non può che essere (in particolare per il tema ambientale) corresponsabilità. Di fronte alla complessità, all’articolazione, alla vastità della questione ambientale è impensabile agire singolarmente. Questo non vuole dire che io non debba valutare bene il mio personale stile di vita ed operare su di esso, ma non basta – se non faccio anche opinione pubblica, se non faccio azione educativa, culturale, politica, se non esprimo la mia responsabilità attraverso tutte quelle strutture, quei sistemi in cui sono inserito. Responsabilità che si fa corresponsabilità, dunque, non per cancellare la primaria vocazione di cui io personalmente sono titolare, ma per esplicitarla a vasto raggio, in modo tale che possa essere significativa anche per problemi che hanno la dimensione della famiglia umana.
c) Per un diverso rapporto tra terra e città.
Possiamo disegnare tale prospettiva a partire dalla considerazione di quanto è cambiato il nostro atteggiamento nei confronti del bosco. Fino al Medioevo esso era natura minacciosa, che circondava la città, rispetto alla quale rappresentava l’ignoto; si poteva andare a fare legna ma con molta attenzione perché là c’era il lupo. Per la modernità la natura non è più minacciosa, diventa invece una cava di risorse per costruire la città, che anzi progressivamente si espande fin quasi a inglobare la natura stessa. Oggi, in effetti, il pianeta è quasi completamente antropizzato, non esistono luoghi vergini e anche i luoghi in cui la presenza umana stabile è ridotta al minimo, sono comunque toccati dal mutamento climatico e da flussi di inquinanti (ormai vi sono tracce di DDT anche nel grasso degli orsi polari). Non più la città stretta attorno dalla natura minacciosa, ma piuttosto la città degli uomini che si espande a dar forma in misura sempre più ampia alla natura attorno a noi.
Questo ha creato anche delle reazioni strane all’interno dell’etica ambientale, in cui si pensa ad una sorta di rivincita della natura rispetto alla città. In realtà, per ricostruire una natura vivibile dobbiamo saper tenere insieme le istanze dell’etica ambientale, con l’esigenza di una convivenza giusta nella quale tutti gli esseri umani possano vivere una vita degna. Non mi convincono invece quelle teorie che ipostatizzano il valore della natura imperturbata, come non mi convincono quelle etiche della vita che assolutizzano il valore dei viventi. Dobbiamo tenere assieme un amore profondo per la terra, un’attenzione forte per la sua custodia e contemporaneamente la necessità di articolare questa prima direzione con l’attenzione per gli esseri umani. Dal punto di vista di un’etica socio-economica una ragionevole, esaustiva traduzione di questa articolazione complessa credo possa essere la parola sostenibilità entrata nel lessico politico internazionale almeno a partire dal Forum ONU di Rio del 1992. In questi giorni va a svolgersi a Rio il grande appuntamento promosso dalle Nazioni Unite e ci sarà il bilancio su cosa si è fatto in questi 20 anni riguardo all’ambiente e la parola chiave è tuttora sostenibilità. Sostenibilità significa costruire una forma di vita, una forma socio-economica in grado di garantire i bisogni di tutta la generazione presente, senza compromettere un’analoga possibilità per le generazioni future.
È un approccio che a prima vista sembra molto antropocentrico; si parla solo di esseri umani di oggi e di domani, ma è interessante la sottolineatura della giustizia – intragenerazionale e intergenerazionale. La necessità di garantire il futuro viene così declinata dallo stesso Rapporto Bruntland in impegnative condizioni circa l’uso delle risorse e dei rifiuti nell’organizzazione della forma sociale: si parte da un rapporto antropocentrico ma per costruire un’efficiente etica politica del rapporto con la terra. Sostenibilità è un ancora approccio che non demonizza il contenuto della scienza e della tecnologia in ordine a un positivo affrontamento alla questione ambientale; è una prospettiva diversa in tal senso dalla decrescita, che molti anche del nostro mondo cattolico apprezzano. Decrescita, almeno nelle parole del suo principale fondatore Latouche, significa una notevole presa di distanza dalla tecnologia, ma io ritengo che abbiamo bisogno di una profonda modifica nel modo in cui organizziamo le nostre città per consentire che esse siano più sostenibili, siano più leggere sull’ambiente.
Oggi questo lo possiamo fare soltanto se siamo anche in grado di valorizzare quelle forme di ecoefficienza che le nuove tecnologie ci mettono a disposizione. Tenere insieme la terra e la città significa anche articolare quella grande categoria del pensiero sociale cattolico che è il bene comune con l’altra categoria molto vicina che sono i beni comuni, di cui ci siamo occupati nel dibattito sull’acqua col referendum di un anno fa. Capire che il bene comune della famiglia umana ha bisogno di essere articolato, declinato in una pluralità di beni comuni, tutti bisognosi di tutela, e capire anche come gestire quei casi in cui, nella tutela di tale varietà di beni, si disegnano conflitti. Problema complesso in cui dobbiamo mettere in opera l’attenzione per la relazionalità, ma anche la fatica della razionalità che non cede a slogan facili, ma sa esaminare analiticamente tutto questo.
5. PER UNA NUOVA SAPIENZA
Vorrei concludere con un’ultima prospettiva. Se da un lato essere custodi della terra implica l’attenzione per una varietà di questioni, l’acquisizione di una varietà di competenze (è qualcosa che interessa le nostre professioni, la nostra vita personale, il nostro essere fruitori e operatori di cultura, il nostro essere educatori), tuttavia a monte, al cuore di tutto questo deve esserci soprattutto la ricerca di una nuova sapienza, che sappia raccordare tanta varietà di saperi. Essa saprà attingere alla luce della fede cristiana, al messaggio biblico, all’istanza francescana, per proporsi all’interno di questa complessa ricerca che l’intera famiglia umana sta vivendo. Si tratta, insomma, di costruire una sapienza nuova che sappia entrare in un dialogo – ecumenico, interreligioso, interculturale – con l’umanità che abita sul pianeta, per assumere assieme la responsabilità per la casa della convivenza umana. Non è casuale la consonanza anche etimologica di ecumenismo ed ecologia: la casa (oikos) sta alla radice di ambedue i termini ed è una realtà molto importante per articolare quella collaborazione con tutti gli uomini di buona volontà cui già invitava il Concilio Vaticano II, nella conclusione della sua quarta, grande Costituzione, la Gaudium et Spes.
* docente di teologia della creazione presso Facoltà Teologica del Triveneto e di teologia ecumenica presso l’Istituto Ecumenico S. Bernardino