Alcuni spunti di ricerca alla luce della “Laudato sì’ ”
Convegno “Abitare la terra. Abitare la città” – Bellamonte, 23-26 agosto 2016

Comunicazione di Edes Guerrini

N 9-10-2016 (1)“Laudato si’, mi Signore, per sora nostra matre Terra… la nostra casa comune… questa sorella che protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla… Dimentichiamo che noi stessi siamo terra. Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora” (cf LS 1-2).
Già da queste prime righe dell’Enciclica “Laudato si’” sulla cura della casa comune si coglie la denuncia di Papa Francesco verso uno stile di vita che purtroppo ha dominato il nostro secolo. Non è difficile riconoscere che i problemi analizzati in questo documento sono estremamente attuali e segnalano l’emergenza di cambiare rotta. L’appello accorato del Papa rivolto a tutti è di trovare un modo diverso di abitare e di vivere questa nostra casa comune.
Apparentemente l’etimologia della parola abitare sembra dare ragione ad uno stile di vita improntato sul dominio e sul potere. Deriva dal latino habere che significa avere, possedere, avere la consuetudine in un luogo, dimorare a lungo (Ottorino Pianigiani, Dizionario etimologico, Fratelli Melita). Tuttavia per capire il vero valore semantico di questa parola “abitare” deve essere collocato nel contesto che ci riguarda come esseri umani e come creature.
M. Heidegger, noto filosofo del ’900, offre una chiave di lettura del termine abitare ponendo l’attenzione non sull’uomo, ma sul principio dell’uomo e di ogni cosa esistente. In questo principio che lui chiama Essere l’uomo deve riconoscersi come un suo tratto e una sua espressione. L’abitare dell’uomo riflette questa relazione, questo legame fondamentale.
“L’abitare è il tratto dell’essere in conformità del quale i mortali sono” (Heidegger, conferenza 1951). Nella “Lettera sull’umanismo” spiega che questa dipendenza dall’essere non svilisce l’uomo, ma lo nobilita e, dice il filosofo, lo pone in una dignità particolare in quanto: “l’uomo è il pastore dell’essere”cioè è chiamato dallo stesso suo principio “a guardia della sua verità”.
Trovo una certa corrispondenza nel testo biblico, nel cap. 2,15 del Genesi si legge: “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse”. Coltivare e custodire sono il lavoro del contadino e del pastore. Nella Laudato si’ (67) si mette in risalto la parola custodire, ora vorrei, invece, porre l’attenzione sulla parola “coltivare”: in senso materiale significa spingere innanzi l’aratro; in senso morale significa attendere con premura, rispettare, venerare, abitare.
È in questo contesto che Papa Francesco evoca l’esempio spirituale del santo di Assisi: “era un mistico e un pellegrino che viveva con semplicità e in una meravigliosa armonia con Dio, con gli altri, con la natura e con se stesso” (LS 10) e ancora, “san Francesco ci propone di riconoscere la natura come uno splendido libro nel quale Dio ci parla” (LS 12), “il mondo è qualcosa di più che un problema da risolvere, è un mistero gaudioso che contempliamo nella letizia e nella lode” (LS 12).
Il richiamo del Papa a contemplare l’armonia dell’uomo Francesco è forte e non a caso intitola l’enciclica con le parole del Cantico delle Creature “Laudato si’”.
In questo poema c’è un ordine preciso: tutto volge all’unità con il creatore, tutto parla di lui.
Il mio lavoro di insegnante di religione ruota attorno a questo nucleo di fondo. I giovani liceali sono piuttosto sensibili alle problematiche sollevate dal Papa; sono colpiti dalle catastrofi ambientali e umane e oggi più di ieri chiedono di capire. Si è discusso molto in classe anche alla luce di alcuni passi nei vangeli, in particolare la figura del buon samaritano che coglie l’istante e spende tutta la sua persona per soccorrere il malcapitato mandando a monte il programma della sua giornata.
Fin qui tutto bene, ma quando si mette in campo Dio si intravvede nei loro sguardi una sorta di smarrimento e la domanda: “Ma prof… per amare il prossimo e rispettare la natura non c’è bisogno di credere in Dio. Cosa c’entra Dio?” L’osservazione può rispecchiare una forma di pensiero piuttosto diffusa e che di conseguenza i giovani assorbono.
Potremmo rispondere con una citazione di Benedetto XVI:“Lo spreco della creazione inizia dove non riconosciamo più alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto noi stessi” (cf LS 6), però non basta. Si, è vero, fino a quando chiudiamo il nostro sguardo al nostro piccolo ego possiamo illuderci per un po’ di avere un grande potere su tutto, ma, non avendo lo sguardo aperto alla verità che sottende ogni cosa, prima o poi siamo sopraffatti da eventi che non sappiamo dominare (l’immigrazione, lo scioglimento dei ghiacciai, l’inquinamento, le malattie, la vecchiaia….).
Tuttavia la risposta rimane astratta, mentre l’intervento degli studenti è estremamente concreto; è una domanda fondamentale, altro che un riflesso di un pensiero postmoderno!
Chi siamo e da dove veniamo? Chi sei tu e chi sono io? chiedeva Francesco a Dio nelle sue preghiere sul monte LaVerna. Sono tutt’altro che domande obsolete, perché ci scuotono nel profondo, domande sempre nuove, perché non trovano mai una risposta definitiva. Domande che mi riportano al vissuto di Francesco; anche con le creature più infime si intratteneva in un dialogo indicibile, con il verme che striscia per terra così come nella predica agli uccelli o nel dialogo con il lupo di Gubbio.
Si sente spinto da un amore traboccante e sconfinato, perché Dio è in lui ed è nel vento, nell’acqua, nella terra, nel fuoco, in ogni essere vivente.
Non è il rispetto che nasce dalla paura che la natura si rivolti contro di me, ma è il rispetto e la venerazione che nasce dall’amore profondo verso Dio che è in me e ha preso dimora in me come in un tempio (1Cor. 6,19 e Gv. 14,23 e 17). Abita nel mio cuore come nel cuore della creazione. È lo stesso pulsare, lo stesso respiro.
Questo diventa “inabitare” ovvero risiedere all’interno come nel cuore. Trovo questo intimamente legato al mistero dell’incarnazione. “Il verbo si fece carne” (non l’ha indossata come un vestito, ma è diventato carne) “e venne ad abitare in mezzo a noi”.
E’ mistero perché ancora oggi non siamo in grado di comprenderlo. Dio è in noi, ma noi siamo ancora abituati a pensarlo come altro. Lo stesso Padre nostro che recitiamo è nei cieli, ma il vissuto di san Francesco, per quanto abbiamo detto, ci consegna un’altra verità! Forse non ne possediamo il linguaggio, forse dobbiamo rivedere la nostra teologia?
Kierkegaard in “La malattia mortale” scrive: “Ogni uomo è una sintesi di corpo e anima destinata ad essere spirito, cioè ad abitare nella casa”. Vale a dire che il nostro destino è recuperare le nostre radici spirituali, il cuore. Aggiungerei che tutta la creazione ha questo destino di salvezza, ma chi deve portarlo avanti è l’uomo, perché è lui che è stato posto come custode e coltivatore. Siamo noi che dobbiamo amare e realizzare lo spirito in ogni materia, non ci mancano le forze. Dio è in noi e vi ha preso fissa dimora. Questa realizzazione è la casa!
Quando parliamo di casa la prima immagine che ci viene in mente è una costruzione chiusa, una capanna, un luogo coperto, separato, una proprietà. Ma emerge da queste riflessioni che la casa sia piuttosto un interagire, una relazione dinamica.
È interessante notare come in origine la capanna aveva un’apertura centrale verso il cielo, una buca nel pavimento per raccogliere l’acqua, il fuoco al centro. Era, sì, una costruzione di riparo, ma anche un collegamento continuo con gli elementi essenziali che troviamo nel macro cosmo. Terra, aria, acqua, fuoco interagiscono dentro e fuori la casa. Elementi che costituiscono essenzialmente anche il nostro corpo, non a caso chiamato microcosmo (Dizionario dei simboli, ed. BUR). “….dimentichiamo che noi stessi siamo terra. Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora” (LS 2).
Sotto questo aspetto non siamo tanto diversi dagli alberi che assorbono l’acqua, l’aria e la luce; ma, come nella parabola nel vangelo di Luca, siamo alberi che possono fare frutti buoni, nell’ordine di una condivisione e di una casa comune o frutti malati, nell’ordine di un egoismo (Lc. 6,43-49). “Il cuore è uno solo e la stessa miseria che porta a maltrattare un animale non tarda a manifestarsi nella relazione con le altre persone” (LS 92).img133
Sarebbe interessante approfondire le dinamiche delle nostre relazioni e proiezioni. Uno spunto di riflessione potrebbe essere una meditazione del Papa “Cuori liberi da invidie e gelosie” del 23 Gennaio 2014 a Santa Marta: “Il verme della gelosia porta risentimento, invidia, amarezza e anche decisioni istintive, come quella di uccidere” (cita il il racconto di Caino e Abele e quello di Re Saul con il giovane Davide). “Quando il cuore è veramente aperto ad una comunione universale, niente e nessuno è escluso da tale fraternità” (LS 92).
Concludendo, P. Cherubino Bigi nel Quaderno di Pace e bene sul Cantico delle creature cita un affermazione di Paul Ricoeur: “Manifestare il sacro sul cosmo e manifestarlo nella propria psiche, è la stessa cosa… esploro la mia propria sacralità decifrando quella del mondo”.
Forse è in questa chiave di lettura che dobbiamo leggere l’invito di san Francesco ai frati a considerare la terra come la propria casa e il proprio convento. Ciò rischia di apparire come un sogno romantico, in realtà è la massima concretezza e la massima realizzazione umana.
San Francesco ha capito profondamente che tutto è unità e la casa è il sacrum-facere (il sacrificio) dell’uomo. * Pedagogista, insegnante di religione

Edes Guerrini
Pedagogista, insegnante di religione