Re Magi

La povertà più cupa non consiste nell’impossibilità di avere, ma nell’incapacità di dare.
Ovviamente chi non ha nulla non potrà dare nulla, ma ciò non vuol dire che chi possiede in abbondanza abbia il potere di dare. Bisogna capire che esiste un solo modo di dare: gratis. Tutto ciò che non è gratuito non è nemmeno un dare in senso proprio, ma uno scambio, un investimento, un affidamento o un prestito.
Diamo o non diamo. Per dare bisogna andare oltre sé, o non si sta dando. Da ciò deriva il fatto che la forma emblematica – e l’unica possibile – di dare è il dono. Per dare, donare, però, bisogna avere un potere grande, molto più difficile da acquisire degli oggetti che si possono donare, e consiste nell’essere capaci di dare in modo disinteressato. Alcuni pensano che sia impossibile dare in modo disinteressato.
In qualche modo è vero, perché chi dà ha un’aspettativa irrinunciabile: che l’altro riceva senza che la persona diventi parte di una transazione, ovvero escluderlo dalla rete di interessi reciproci e smettere allora di accogliere l’appello espresso dal disinteresse: dare è dare di se stessi.Ogni dono, quando è autentico, aspira a portare alla luce la realtà dell’altro, e più ancora a mostrare la luce della realtà, in generale.
Ogni dono è quindi epifania, manifestazione, consumazione. Questo era sicuramente il senso antico di “ornatus”: non un sovrappiù formale prescindibile, ma il sovrappiù imprescindibile in cui si verifica la manifestazione visibile dell’occulto, la trasfigurazione che permette di riconoscerlo e proclamarlo.
È talmente difficile raggiungere il potere necessario per dare, che l’Occidente si è dato alcuni modelli, che ha chiamato re e magi allo stesso tempo. Se li rappresentiamo con corone, mantello, metalli e pietre preziosi, è per riflettere e lasciar vedere la loro luce, la luce che è l’intensità della realtà: lo splendore di ciò che è, in modo più intenso e vero.
E se li chiamiamo “magi” è sicuramente perché il latino “magis” e la parola “magistero” hanno la stessa derivazione etimologica: il mago è maestro, colui che è capace di insegnare, di illuminare la realtà, condividendola. La magia del magistero consiste nel mostrare la luce della realtà, il cui splendore la rende riconoscibile consumandola, almeno nella sua apparizione. Chi fa un presente aspira a rendere l’altro presente, in tutta la sua grandezza e la profondità visibili. Tra l’elogio, il presente e l’omaggio c’è una parentela con la tradizione nel poter dare fino al culmine. Bisogna avere potere di re e di magi per saper dare. Ma questi modelli comportano ancora un altro enigma. Tutta la sua prodezza è consistita nel seguire una stella in terre altrui e desertiche, portando con sé piccoli tesori. La difficoltà sta nel credere che i tesori erano già tesori prima di seguire la stella nel deserto. Perché, in realtà, non esiste alcun tesoro prima di essere sopravvissuti da un deserto.
Non è per caso che la tradizione letteraria colloca i tesori in isole sconosciute o deserti inesplorabili. Il mare e il deserto sono la geografia del tempo: in essi, nulla dura e nulla che si fa lascia orme; ciò che regna è l’oblio dell’onnipotente. E proprio per questo, deserti e mari sono i luoghi in cui è possibile trovare tesori la cui natura propria sia una durevole inalterabilità: ciò è simboleggiato dall’oro e dai diamanti, dalle pietre preziose il cui splendore non si spegne.
Le promesse mostrano questa inalterabilità dell’essere umano. Le promesse fatte e quelle preservate sono la forma più umana del tesoro e quindi del presente. Il potere di fare un dono si nasconde nell’adorabile, che ci attira in promesse per sempre, fin quando dura questo tempo. Se l’essere umano è un animale che promette, è perché è l’unico capace di tesorizzare e fare un dono, di donare, donare di sé. Ma tra noi, e proprio in questa nostra epoca, a volte il potere di fare un dono sembra essere svanito.

Higinio Marin
Aleteia Team