Martín Carbajo Núñez, Ofm
1. L’Anno della fede in un contesto di crisi
Nella presentazione dell’Anno della Fede (21 giugno 2012), S.E. Mons. Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione, affermava: Quest’Anno “si inserisce all’interno di un contesto più ampio segnato da una crisi generalizzata che investe anche la fede. […] La crisi di fede è espressione drammatica di una crisi antropologica che ha lasciato l’uomo a se stesso; per questo si ritrova oggi confuso, solo, in balia di forze di cui non conosce neppure il volto, e senza una meta verso cui destinare la sua esistenza. È necessario poter andare oltre la povertà spirituale in cui si ritrovano molti dei nostri contemporanei, i quali non percepiscono più l’assenza di Dio dalla loro vita, come una assenza che dovrebbe essere colmata“. Esiste, quindi, una relazione molto stretta tra crisi socio-economica, crisi antropologica e crisi di fede.
Nel mondo globalizzato “la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica” che, a sua volta, dipende dalla comprensione che si ha di Dio. Quindi, per poter rispondere adeguatamente alle sfide attuali, è necessario ripensare l‘antropologia che sta alla base delle filosofie più influenti, giacché ognuna di esse risponde ad una determinata concezione dell’uomo e delle sue relazioni fondamentali (Dio, prossimo, natura). Francesco di Assisi e la Tradizione francescana offrono una risposta molto attuale alle sfide del mondo secolarizzato, soprattutto per il modo in cui vivono e testimoniano la gratuità divina. Studiando questa nostra Tradizione, accogliamo l’invito che Benedetto XVI ha fatto di ripensare la “mentalità corrente egoistica e materialistica”, che riduce l’essere umano a homo oeconomicus, facendo a meno della sua intrinseca capacità di altruismo e di autodonazione.
1.1. La crisi di fede nell’età secolare
Il camminare nella fede incontra oggi molte difficoltà in un contesto socioculturale che “riduce l’ambito delle certezze razionali a quello delle conquiste scientifiche e tecnologiche”. Di fatto, il presupposto della fede “non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato” (PF2) Il filosofo canadese Charles Taylor, nel suo libro “L’età secolare”, afferma che viviamo in un’epoca in cui la religione si è ritirata dallo spazio pubblico e la fede è solo un’opzione tra tante altre. La fede in Dio non è più assiomatica né una precondizione indiscutibile, come accadeva invece nell’epoca pre-moderna. Viviamo nell’età secolare, ma non nel secolarismo ateo. Non è stata abbandonata l’apertura alla trascendenza ma, nel momento in cui si vuole dare un senso alla realtà, l’individuo si trova a fare i conti con una pluralità di proposte religiose, morali e spirituali. Di fatto, molte persone ritengono che l’impegno attivo per la giustizia e la pace sia da preferirsi alle pratiche religiose. Secondo Tayor, sono tre i modi di comprendere il concetto di secolarizzazione, che possiamo classificare come segue: politico, sociologico ed esistenziale. Il primo si riferisce alla separazione tra lo Stato e la Chiesa, che oggi si manifesta nell’esclusione di Dio dallo spazio pubblico (crocifissi nelle scuole, ecc.).
Il secondo si focalizza sui dati statistici che riguardano il numero dei credenti e la pratica religiosa. Quest’ultima, infatti, è notevolmente diminuita. Il terzo modo di intendere la secolarizzazione è quello “esistenziale”. Si riferisce alle condizioni nelle quali oggi si inquadrano l’esperienza di fede e la ricerca di senso. Taylor concentra l’attenzione su questa tipologia. La scienza ha disincantato la percezione della realtà nell’immaginario collettivo e ha reso pressoché impossibile da vivere quel tipo di fede semplice e acritica che caratterizzava l’io “poroso” e vulnerabile del medioevo. L’individuo moderno (buffered self) percepisce se stesso come indipendente, impermeabile davanti alle influenze esterne e soprannaturali, e si ritiene capace di definire autonomamente la propria identità. Taylor analizza il processo di secolarizzazione iniziato nel Rinascimento e che ha condotto attualmente ad una visione immanente della realtà, comune a credenti e non credenti. Si direbbe che la fede è solo una delle opzioni a disposizione del consumatore. Ma questo cambiamento non andrebbe addebitato principalmente all’influsso delle scienze naturali, perché in realtà molti scienziati del secolo XVIII erano credenti. Taylor distingue due grandi tendenze nella cultura secolare: l’umanesimo immanente e il meccanicismo scientifico. Il primo sarebbe accettabile e avrebbe avviato l’attuale processo di secolarizzazione, mentre il meccanicismo scientifico sarebbe riduzionista, utilitarista, chiuso alla trascendenza e sarebbe iniziato più tardi, nel secolo XIX.
1.1.1. L’umanesimo immanente, oggi condiviso da credenti e non credenti
Le opere di Giusto Lipsio (1547-1606) e Ugo Grozio (1583-1645) sarebbero il punto di partenza dell’umanesimo immanente (etsi Deus non daretur). Secondo questi autori, le guerre di religione e la persecuzione degli eretici avrebbero dimostrato che la fede non sarebbe una base sicura per garantire la convivenza civile e, pertanto, bisognerebbe sostituirla con la ragione pratica. Essi concepiscono la legge naturale non come qualcosa di iscritto nella natura umana (Aristotele e Tradizione cattolica), bensì come frutto di un dibattito razionale al quale tutti possono partecipare.
Di fatto, i filosofi deisti ammettono l’esistenza di un creatore distante, ma escludono qualunque riferimento esplicito a lui quando si tratta di organizzare la società civile e parlano di una carità disciplinata, informata dalla ragione. Le successive dichiarazioni dei diritti umani sarebbero il frutto di questi ideali umanisti. In un famoso dialogo, Habermas e il cardinale Ratzinger (Monaco 2004) si trovarono d‘accordo nell’affermare che è urgente la collaborazione di tutte le civiltà per poter elaborare un’etica universale basata sulla ragione pratica. Il cardinale Ratzinger lodò il tentativo che, in questo senso, avevano fatto Grozio e altri autori, affermando che, per fare ciò, si erano basati su un ideale pre-filosofico di matrice evangelica. Dalla sua parte, Habermas riconosce che la ragione naturale non è sufficiente per cogliere la profondità del senso dell’uomo e quindi ci vuole una dialettica ragione e religione nella vita pubblica. Filosofia e religione devono dialogare, intendendo “la secolarizzazione della società come un processo di apprendimento complementare”.
1.1.2. Lo scientismo che esclude la gratuità
Nel secolo XIX si impone l’altra linea della cultura secolare. Essa abbandona la razionalità etica e mette al suo posto la razionalità strumentale. Il bene totale rimpiazza il bene comune, e così sarà più facile ignorare gli abusi del capitalismo selvaggio. I valori sono ridotti a sentimenti; l’etica al calcolo utilitarista del massimo beneficio. Si pensa che l’unica conoscenza valida sarebbe quella delle scienze positive (scientismo), sottovalutando tutto ciò che non sia verificabile empiricamente. “Le strutture giuste renderebbero superflue le opere di carità”, poiché l’uomo sarebbe “redento semplicemente dall’esterno”. Tutto si affida a un sistema che dovrebbe raggiungere gli obiettivi in maniera automatica . Trionfa così l’ideologia tecnocratica, che tutto subordina ai prodigi della tecnologia e delle finanze, mentre prescinde dai valori e dall’altruismo.
La scienza economica è stata concepita come puro calcolo matematico di variabili quantificabili, senza alcun riferimento all’altruismo e alla gratuità. Benché, in teoria, non si escludano altre motivazioni personali, nella pratica la razionalità economica è stata ridotta alla razionalità strumentale, dando per scontato che l’egoismo è il movente principale del nostro sistema di preferenze. Questa prospettiva economicistica viene applicata, di fatto, a tutte le istanze della vita umana. Si ritiene che, in ultima analisi, tutto risponderebbe ad un calcolo utilitarista del beneficio. La scuola di Frankfurt fu molto critica nei riguardi di questo modo di pensare. Horkheimer e Adorno arrivarono ad affermare che l’Olocausto nazista non era stato un ritorno alla barbarie di tempi passati, bensì un’ulteriore dimostrazione del lato più oscuro della modernità, che usa la scienza e la tecnologia per manipolare la gente, arrivando perfino ad eliminarla, pur di favorire gli interessi della minoranza dominante.
1.2. Un’antropologia negativa che giustifica la guerra di interessi
La visione antropologica dominante esclude la gratuità e la donazione. Grazie al contratto sociale, l’individuo si libera dai legami familiari e sociali che regolavano la precedente società gerarchica. Avendo superato quelle dipendenze indesiderabili, il cittadino può “cooperare senza sacrificio” (Hume), in modo razionale e metodico, avendo la giustizia come unico referente. Questo tipo di relazione mercantile e impersonale (cash nexus) renderebbe l’individuo più libero e quindi più capace di una socievolezza matura e autentica nell’ambito civile. In questo modo, la libertà e l’indipendenza economica sarebbero il fondamento di tutte le altre libertà sociali; l’ambito economico costruisce il sociale. L’individuo non dovrà donarsi né rinunciare alla propria convenienza, perché la società mercantile non si basa su legami personali, bensì sulla somma degli interessi particolari. Il mercato funzionerà meglio quanto più i legami saranno deboli e funzionali; cioè, nel provvedere ai propri affari, la società otterrà più vantaggi se ognuno cercherà spudoratamente il proprio interesse, senza sprecare energie con considerazioni altruistiche. Pertanto, la massimizzazione della ricchezza escluderebbe la possibilità di relazioni gratuite e fraterne. Il mercato è concepito come una guerra, nella quale ognuno difende il proprio interesse, senza alcuna considerazione altruistica.
Il prossimo è solo un avversario da vincere o ingannare (darwinismo sociale). Quanti non sono sufficientemente forti o astuti per poter sopravvivere in questa guerra economica dovranno rifugiarsi nell’ambito sociale. Gli affari sono affari (“Business is business”) o, come diceva Hobbes, “la tua morte è la mia vita”. La teoria socioeconomica oggettivista, molto influente negli ultimi decenni, non prende in considerazione la reciprocità né la gratuità, argomentando che queste dimensioni romperebbero l’ordine economico vigente, che si basa sullo scambio di prodotti di valore equivalente. Tutto risponderebbe alla logica commerciale. Perfino ciò che appare come dono sarebbe in realtà la ricerca di un guadagno psichico o morale. Avendo dato per scontato che il comportamento umano risponde sempre a uno stretto rapporto causa-effetto, le persone sono oggettivate, ridotte a “individui standard”, senza una concreta identità. Tutto è subordinato alla legge dei grandi numeri.
1.3. Il testimonio della gratuità, una risposta alla crisi di fede
Il testimonio della gratuità divina si presenta oggi come una risposta adeguata alla crisi di fede nel mondo secolarizzato. Attualmente comunica bene soltanto il testimone, perché i contenuti sono accolti nel contesto delle relazioni. Nella società digitale, infatti, interessano più le relazioni che i contenuti, perciò acquisiscono sempre più importanza la testimonianza e i rapporti orizzontali, interattivi. Gli internauti sono abituati a consultare i blog e le reti sociali, dove altri come loro raccontano le proprie esperienze nell’affrontare qualsiasi tipo di problema, tecnico o personale. Lì si trova più l’esperienza del testimone che il trattato del pensatore sistematico e distaccato. I messaggi (post) sono brevi, diretti, personali, anche se spesso non sono ben elaborati. In questo contesto, evangelizzare significa “entrare in contatto” con persone di ogni cultura e religione per invitarle a entrare in quella esperienza di fede e di gratuità che ha trasformato la vita di chi annuncia. La DSC è molto chiara nell’affermare che l’essere umano, creato ad immagine del Verbo, “non trova realizzazione completa di sé fino a quando non supera la logica del bisogno per proiettarsi in quella della gratuità e del dono” (CDSC 391). In questa linea, l’enciclica Caritas in veritate afferma che la gratuità e il dono, basati sulla verità antropologica, sono imprescindibili per avanzare verso “lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini”1.
2. Lo stile francescano di testimoniare la gratuità
La esperienza della gratuità divina è la chiave di lettura della conversione e della vita di Francesco d’Assisi. Come afferma Benedetto XVI, “il suo essere uomo di pace, di tolleranza, di dialogo, nasce sempre dall’esperienza di Dio-Amore”2. Stando ben saldo sulla Roccia ferma, Francesco si apre umilmente e gioiosamente all’incontro disinteressato con tutti gli uomini, senza cadere nel sincretismo religioso, né nell’indifferenza di fronte alla verità. Sorpreso dall’amore gratuito di Dio, restituisce tutto al Signore, vive senza nulla di proprio e anela solo ad avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione.
2.1. Francesco di Assisi, testimone della gratuità di Dio
“Tutto è grazia”, ripete Francesco nel suo Testamento, mentre ricorda gli avvenimenti della sua vita. Il Signore gli concesse di “incominciare a fare penitenza”, gli insegnò ad essere misericordioso, gli si manifestò vivo nei poveri e nei lebbrosi, cambiò in dolcezza quello che prima gli era amaro, gli rivelò che doveva vivere secondo la forma del santo Vangelo, gli diede “fede nelle chiese” e “nei sacerdoti” (2Test 4 e 6), gli donò fratelli, gli insegnò il saluto di pace, gli fece amare la povertà e la minorità. Francesco esulta di gioia al proclamare che Dio è amore infinito, inesplicabile, immeritato, incomprensibile. Man mano che Francesco si lascia convertire, Dio gli si manifesta in modo più chiaro e sconcertante. Dio non è più per lui un crocifisso fisso e immobile sulla parete della chiesa. Francesco non ha bisogno di andare fino a lui per incontrarlo: è Dio che gli si fa presente in luoghi e circostanze fino allora insospettate. Non tenta più di utilizzarlo senza ascoltarlo, non gli chiede che benedica i suoi sogni di grandezza, le sue decisioni già prese, le sue guerre o i suoi affari. Sorpreso dalla generosità divina, Francesco non sente più la necessità di indicare a Dio quello che deve fare per lui, ma ascolta, prega, gli offre la sua ospitalità. Durante tutta la sua vita continuerà a ripetere, in modi diversi, la domanda che aveva fatto a Spoleto: “Signore, che vuoi che io faccia?”. Francesco medita costantemente “l’umiltà dell’incarnazione e la carità della passione”3, che sono temi centrali nella sua visione teologica. Imitando la kenosis del Verbo incarnato, vince la ripugnanza verso i lebbrosi e chiede ai suoi frati di “essere lieti quando vivono tra persone di poco conto e disprezzate, tra poveri e deboli, infermi e lebbrosi e tra i mendicanti lungo la strada”4.
2.1.1. Relazioni fraterne, gratuite
Francesco considera un dovere di giustizia il restituire agli indigenti parte delle elemosine che riceve5. Il suo atteggiamento positivo non dipende da ciò che i poveri involontari sono o da quello che possono meritare; egli si sente mosso dalla logica della gratuità che Dio ha manifestato in Cristo. Francesco vorrebbe essere il minore di tutti, ma riconosce che, nella scala sociale, i poveri stanno diversi gradini più giù di lui. Pur essendo simile a loro nel non possedere nulla di proprio, si riconosce un privilegiato, giacché la sua povertà è volontaria. Inoltre, egli ha l’appoggio di una comunità e gode della stima della società, mentre i poveri involontari sono visti con diffidenza e disprezzo. Perfino la loro povertà estrema risultava inguardabile, spaventosa6. La gratuità deve essere anche la base delle relazioni tra i frati. “Il Signore mi dette dei fratelli”7, proclama gioiosamente nel suo Testamento, riaffermando che la gratuità è il fondamento della fraternità francescana. Ogni frate riconoscerà l’altro come dono divino ed egli stesso si sentirà creatura povera e nuda, che tutto ha ricevuto gratuitamente e tutto deve restituire, “poiché quanto l’uomo vale davanti a Dio, tanto vale e non di più”8. Francesco non cerca di formare un gruppo di élite, selezionando minuziosamente i candidati. “Voleva appunto che l’Ordine fosse aperto allo stesso modo ai poveri e agli illetterati, e non soltanto ai ricchi e ai sapienti”9. Il suo discernimento si basa su criteri teologici, non su calcoli umani. Al momento di decidere su uno degli aspiranti, sarà determinante il fatto di essere “ricco di fede e di devozione”. Francesco lo accoglie “presagendo che poteva ottenere da Dio molta grazia”10. Quando un candidato risponde a questo profilo, Francesco si sente obbligato ad accoglierlo immediatamente, come un dono della divina Provvidenza che non può rifiutare. Ogni fratello deve essere amato ed accolto per sé stesso, indipendentemente dal contributo che possa dare alla fraternità, perché ciò che veramente conta non è la logica dell’efficienza o il calcolo interessato (do ut des), bensì la logica del dono. “Beato il servo che tanto è disposto ad amare il suo fratello quando è infermo, e perciò non può ricambiargli il servizio, quanto l’ama quando è sano, e può ricambiarglielo” 11. Il fratello non deve essere mai disprezzato, neppure quando ha peccato12. In qualsiasi luogo e circostanza, i frati dovranno ispirarsi a quella reciprocità che spinge a donarsi generosamente, senza calcoli interessati; e ognuno lo farà secondo le proprie possibilità.
2.1.2. Le sorelle creature
Francesco applica al resto del creato la stessa logica della gratuità con cui tratta i poveri, perché ritiene che tutto quanto esiste ha un unico principio e un unico destino: l’amore intratrinitario13. Mostra una profonda venerazione verso tutti gli esseri viventi, anche quelli più umili, giacché in essi scopre presente il Creatore14 e li sente fratelli nel Fratello maggiore. In Cristo e per Cristo, loda il Padre, insieme a tutto il creato15. Le creature gli ricordano l’umiltà dell’incarnazione16. Le ama per se stesse, indipendentemente dalla loro utilità. Perciò, “quando i frati tagliano legna, proibisce loro di recidere del tutto l’albero, perché possa gettare nuovi germogli” 17. Nel Cantico di frate Sole, non mette in evidenza i benefici che le creature procurano all’uomo, bensì il fatto che sono una manifestazione dell’amore di Dio e, pertanto, preziose in se stesse. Non si limita a lodare Dio per mezzo del fratello sole, della sorella luna, ecc., ma invita a contemplare come il sole loda Dio per il semplice fatto di essere sole, e lo stesso vale per le altre creature. In questa comunità cosmica, perfino la morte è per lui una sorella, giacché permette il passaggio alla vera vita18.
2.1.3. La grazia di lavorare
Al di sopra di tutto, Francesco invita i frati a non perdere mai la prospettiva di fede e il senso della gratuità. Chiede che lavorino con le proprie mani, in mezzo ai poveri, considerando il lavoro come grazia e il salario come un regalo della Provvidenza. In qualsiasi circostanza, i frati dovranno testimoniare che tutto è dono. Per tanto, qualora non dovessero ricevere la giusta retribuzione per il lavoro svolto, non dovranno inquietarsi né protestare, ma dovranno ricorrere gioiosamente “alla mensa del Signore”19, espressione che ricorda l’eucaristia. Il criterio è teologico, non giuridico, e rafforza il senso della gratuità. Francesco considera il lavoro come il mezzo ordinario di sostentamento, benché inviti tutti a praticare la mendicità20 e ad apprezzarne la dimensione ascetica21. Se la mendicità fosse obbligatoria o prioritaria, i frati starebbero rinunciando alla grazia di lavorare, sarebbero “di peso agli uomini”22 e troppo dipendenti dei benefattori. Inoltre, Francesco critica con durezza il “frate mosca”, che tiene per sé i doni ricevuti e non li fa fruttificare23.
2.2. Il principio di gratuità nella Tradizione francescana
Seguendo l’ispirazione del fondatore, i francescani sviluppano una scuola di pensiero, il volontarismo, che enfatizza la libertà e la gratuità. Dio non è un motore immobile, lontano, egocentrico. L’infinita libertà divina va sempre unita alla sua volontà amorosa e si esprime nella totale gratuità con cui crea e sostiene.
2.2.1.Tutto è dono
All’origine si trova sempre la volontà libera ed amorosa di Dio. Se esistiamo non è perché ne abbiamo avuto diritto (argomento razionale), bensì per puro dono, perché Qualcuno ha voluto così (volontarismo)24. Se il mondo esiste non è perché sia razionalmente necessario, bensì per amore. Tutti gli esseri creati sono frutto gratuito dell’Amore: esistono perché voluti. La creazione è frutto della Parola (il Figlio) che il Padre pronuncia e che prende forma concreta per la forza dello Spirito25. Quella parola pronunciata esige una risposta. Il Verbo incarnato, homo assumptus, è la risposta perfetta che Dio Padre si aspetta; in lui tutta la creazione si fa risposta gradita al Padre. Dando voce a tutti gli esseri creati, l’uomo è invitato a rispondere al Padre per mezzo di Cristo e mosso dallo Spirito26. Tutto è ontologicamente contingente27, ma contemporaneamente prezioso, perché amato. In quanto creato, ogni essere dipende dal suo Creatore, ma contemporaneamente è prezioso ed autonomo, perché è stato voluto per sé stesso, indipendentemente dall’utilità o dai benefici che possa proporzionare28. Tutto è questione di gratuità, di amore disinteressato, di volontà. Di conseguenza, l’essere umano, imago Dei, cresce nella libertà nella misura in cui sa educare la volontà all’amore. La persona che ama gratuitamente è libera.
2.2.2. La via pulchritudinis
In Cristo, il Padre vive nel mondo e lo vivifica per mezzo del suo Spirito, facendo della creazione un’epifania dell’Amore trinitario. Pertanto, attraverso la via pulchritudinis, possiamo avvicinarci alla Somma Bellezza e scoprirla presente in tutti gli esseri. Il volto di Cristo crocifisso, che si dona gratuitamente, è il nostro modello supremo di quella bellezza divina che è bontà e gratuità. Nelle creature e nella comunità, Dio si fa presenza sensibile, tangibile, affettuosa. Conoscerlo significa amarlo, sperimentarlo, sentirsi affettuosamente unito a Lui, ai fratelli e a tutta la creazione. L’Amore è il punto di partenza e di arrivo. [Nessuno] “creda che gli basti la lettura senza la comprensione, la speculazione senza la devozione, l’indagine senza l’ammirazione, la visione senza l’esultanza, l’industriosità senza la pietà, la scienza senza la carità, l’intelligenza senza l’umiltà, lo studio senza la grazia divina, la riflessione senza la sapienza divinamente ispirata”29. La teologia francescana parte dall’amore divino, completamente libero e gratuito, per poter avanzare verso la contemplazione della saggezza, privilegiando così l’intuizione emotiva ed affettiva rispetto alla speculazione razionale. L’amore è la forma più perfetta di conoscenza. Piuttosto che conoscere, la teologia francescana invita a ri-conoscere, cioè ad accogliere l’autorivelazione divina e a scoprire la sua dimensione salvifica, che si concretizza nella prassi della carità. Conseguentemente, i francescani propongono un’etica del cuore e della compassione. Anziché giudicare, si invita a contemplare e ad accompagnare, in modo attivo e cordiale, l’opera di Dio nel fratello.
2.2.3. Una risposta di amore
A partire dal principio di gratuità, risulta urgente sia la risposta incondizionata e colma di gratitudine a Dio che ci ama, sia l’incontro rispettoso, disinteressato, con il prossimo e con tutta la creazione. L’ospitalità assoluta verso tutti gli esseri non deve essere praticata a motivo del beneficio che se ne può trarre, ma per il fatto che tutti sono frutto dell’amore divino e, pertanto, buoni in se stessi. Invece del proprio interesse, prevale il bene dell’altro; invece dell’uso egoista, si privilegia il rispetto, l’ammirazione e l’empatia. In questo modo, si contraddice sia l’autosufficienza del superuomo (Nietzsche) sia la visione antropologica negativa (homo homini lupus). Ambedue stanno alla base dell’attuale concezione del mercato come guerra di interessi. In sintonia con il principio di gratuità, la riflessione dei francescani sull’economia, durante i secoli XIII-XV, inquadra le attività economiche nel contesto della comunità cristiana ed in funzione dell’individuo concreto. È la logica del dono, non dell’efficienza. In base ad essa, la persona deve essere riconosciuta e aiutata dalla comunità, indipendentemente dall’attività che è in grado di realizzare. La collettività distribuisce la propria ricchezza, garantendo salari dignitosi e mezzi sufficienti per vivere; mentre l’individuo, da parte sua, risponde generosamente con il proprio lavoro.
Conclusione
Nella concezione antropologica francescana, la libertà e la gratuità vanno sempre unite. Senza libertà non c’è gratuità e viceversa. Essendo frutto di una libertà amorosa, l’essere umano è ontologicamente libero e diventerà più se stesso nella misura in cui crescerà nella capacità di donazione. Nella gratuità risiede il valore inestimabile che attribuiamo all’amicizia, alla preghiera, alla festa, alla condivisione gioiosa. Dobbiamo potenziare in noi “quell’atteggiamento disinteressato, gratuito, estetico che nasce dallo stupore per l’essere e per la bellezza”30. L’identità della persona umana non dipende dai suoi averi né dal frutto delle sue mani, bensì dalla sua capacità di donarsi e di costruire relazioni significative. Bisogna andare oltre la filantropia e l’altruismo per poter entrare pienamente nella logica della gratuità, cioè nelle relazioni autenticamente umane. Nel racconto della Genesi, il settimo giorno ci ricorda che l’uomo non è stato creato per produrre, bensì per il dialogo gioioso con il suo Creatore. È un giorno senza alba e senza tramonto, un giorno senza fine, pieno, proiettato verso il futuro. Non invita all’oziosità, ma alla pienezza, alla perfetta allegria, a recuperare il senso ludico e la dimensione relazionale dell’esistenza. All’inizio dell’Anno della fede, la Chiesa ci invita ad essere uomini e donne di fede profonda, via, contagiosa, cioè a essere “segni concreti dell’attesa del Signore che non tarda a venire”31. Questa fede cresce e si fortifica quando è vissuta “come esperienza di un amore ricevuto”, assolutamente libero e gratuito. Una esperienza di grazia e di gioia che il credente si sente spinto a comunicare (PF 7).
* Docente di Teologia morale e Vicerettore Pontificia Università Antonianum