Intervista a Mauro Magatti

Che cos’è la società civile? Una domanda semplice, ma spesso elusa nei discorsi che la evocano, la implicano e – all’approssimarsi di qualsiasi scadenza elettorale – vorrebbero “arruolarla” in questo o quell’altro schieramento. Ne parla in un’intervista a “Vita” il prof. Mauro Magatti, dell’Università Cattolica di Milano, autore del recente “Cambio di paradigma” (Feltrinelli, 2017).
Una domanda secca: che cos’è la “società civile”?
img73 (1)Partiamo da una premessa. Il polo dell’organizzazione istituzionale (che è prima di tutto lo Stato, ma è sempre più rappresentato anche dalla tecnoeconomia) e il polo dell’auto-organizzazione dei soggetti sociali (che parte da una dimensione personale, passando a quella famigliare e associativa) si trovano sempre in tensione e relazione. Sono costitutivamente in tensione e relazione, perché la vita sociale è precisamente questa dinamica.
A volte prevale il polo della dimensione strutturale, altre quello dell’auto-organizzazione, ma né l’uno né l’altro esistono a prescindere. Non possiamo immaginare la nostra vita insieme senza questa relazionalità.
Detto questo, la società può essere civile, proprio perché corre sempre il rischio di essere incivile. Se non avessimo questo problema, non avremmo inventato l’istituzione. Ma d’altra parte le istituzioni, oltre a essere il luogo fondamentale per fare delle cose che i singoli soggetti non potrebbero intraprendere, possono essere fonte di oppressione e rigidità. Non solo, dunque, esistono due poli, ma sono due poli che hanno le proprie ambivalenze. La società civile si capisce e si definisce solo in questa relazione, non fuori.

Quali sfide per la società civile?
La tesi che sostengo è che, per i paesi avanziati con un particolare profilo demografico e soprattutto per l’Italia, il tema sia proprio aprire una relazione fra istituzioni intese in senso lato e i soggetti sociali. Io uso la chiave dello scambio sociale: lo scambio sociale fra interessi economici, interessi sociali e istituzioni è un modo per provare a districare quella nuova relazione che si può costruire tra la società civile e le istituzioni. La mia tesi è che siamo alla ricerca di un nuovo equilibrio che potrà andare lungo un percorso molto negativo – un’oligarchia e un controllo che la digitalizzazione renderà possibile – oppure verso la grande opportunità di uno scambio avanzato. In questa seconda opzione, i soggetti della società civile trovano nei soggetti istituzionali, politici e in quelli legati alla dimensione tecnologica dei parametri che permettono loro di non cadere nella tipica malattia del sociale: il particolarismo. Ciò che chiamo lo scambio sostenibile contributivo è uno spazio importante.
È lo spazio più ampio che cittadini, associazioni, movimenti è necessario si diano per una nuova stagione che superi definitivamente la fase del mero consumo. È arrivato il momento di passare da uno scambio consumerista ad uno scambio sostenibile contributivo: la società civile può essere la chiave di questo passaggio.

La sfida è anche all’interno dello spazio digitale e ci porta alla seconda domanda: che cosa può fare, oggi, la società civile?
La questione della digitalizzazione sarà il discrimine per la società civile: o la subiamo con processi che ci vengono dall’alto e ci proletarizzano oppure la usiamo per nuovi processi. La società civile può essere la chiave per una nuova intermediazione di questi processi.
Serve, però, una “nuova società civile” capace di un protagonismo nuovo sui temi della condivisione, dei beni comuni, etc. Se i gruppi della società civile si limitano alla pura produzione del proprio orticello è finita.
La società civile o evolve con una dimensione organizzativa o non è niente.
Evolvendosi si scontra con la questione del potere, della produzione di élites e via dicendo. Evolvendo, corre il rischio di diventare radicalmente incivile andando a vantaggio di pochi abilissimi a costruire belle retoriche e a bloccare il processo anziché trovarlo.
L’elemento buono della società civile è la sua pluralità e la sua fioritura dal basso. Una fioritura che ha bisogno di condizioni e continuamente si scontra con il tentativo di controllarla, di metterci le mani sopra: lo fanno i partiti, lo fanno i grandi interessi economici ma lo fanno, ahinoi, anche pezzi della stessa società civile. Le società avanzano, si fanno più complesse e le consapevolezze cognitive richieste diventano maggiori. Le sfide di questa complessità le potremo sostenere se torniamo a investire nei processi formativi e comprendiamo che non esiste società civile che non abbia accesso a percorsi di formazione plurali. È una grande debolezza del nostro Paese.
Oggi, chi parla di società civile ci dica anche cosa e come e quanto vuole investire sulle soggettività. Il che significa investire in conoscenza, in cultura, in formazione e educazione. Nel nostro Paese c’è tanto, ma tende tutto a essere molto disperso e si fa fatica a far circolare le buone pratiche. Il populismo sfrutta la frammentazione e la diffusa sensazione di vivere nel deserto. Questa sensazione nasce dal fatto che le buone pratiche, che ci sono e sono moltissime, stentano ancora a divenire cultura. Farle diventare cultura generativa e condivisa è la sfida che ci attende.