Se la comunicazione si impara in famiglia
Parlare di comunicazione a partire dalla gestazione di un bambino in grembo può sembrare poetico, ma poco scientifico. Eppure la scelta di papa Francesco di lasciarsi ispirare dalla visita di Maria ad Elisabetta (Lc 1, 39-56) si rivela un’interpretazione più realistica e convincente di tanti media studies che si fermano alla soglia di quel ‘miracolo’ che è ogni volta la comunicazione. Tornare a quel momento originario aiuta ad entrare dentro il linguaggio del corpo che è fatto di ascolto e di contatto fisico, “dove cominciamo a familiarizzare col mondo esterno in un ambiente protetto e al suono rassicurante del battito del cuore della mamma”
(Messaggio per la 49ª Giornata Mondiale delle comunicazioni sociali).
giorn comIl cuore del Messaggio 2015 è “un nuovo punto di vista” sulla comunicazione e, reciprocamente, sulla famiglia, che facilita uno sguardo più concreto sui nuovi media che sembrano mettere a dura prova la coesione e il dialogo familiare.
In realtà, ciò che fa della famiglia “il grembo” della comunicazione è legato a tre evidenze difficilmente contestabili, anche in una stagione culturalmente omologata come la nostra, in cui il discorso sul familiare rischia di essere sempre “un’ideologia di qualcuno contro qualcun altro” (Messaggio).
Proviamo a rimettere in ordine il quadro. La prima evidenza è che la famiglia “è fatta di persone diverse in relazione”, il che non compromette ma facilita il dialogo che sboccia sempre tra persone intime ma differenti.
La seconda evidenza è che la famiglia è la scuola dove si sperimentano limiti e carenze, ma pure risorse ed energie per affrontare insieme la fatica di ogni giorno che non è una passeggiata, ma sicuramente rappresenta un cammino di crescita.
La terza, infine, è che la famiglia più che la vittima dei nuovi linguaggi può essere il controambiente che ne limita le ambiguità e ne potenzia le possibilità, grazie alla sua capacità di raccontare e non semplicemente di produrre informazione.

La famiglia comunica per via della differenza
La famiglia, anzitutto, comunica perché in essa la roccia della differenza consente di uscire dal proprio io e di aprirsi all’altro. L’eclissi della differenza di genere e di generazioni ha delle ricadute in ordine alla comprensione reciproca e alla stessa possibilità di dialogo. Da questo punto di vista, comprendere la parabola storica tra maschio e femmina è istruttivo.
Con il XX secolo la gerarchizzazione dei generi a vantaggio di quello maschile è entrata in crisi. Ma questa positiva presa di coscienza ha prodotto il passaggio della differenza ineguale alla… somiglianza egualitaria. Qui si inserisce la forma che ha assunto oggi il dibattito sul gender che si smarca completamente dal dato biologico, lasciato alla libera interpretazione quando non addirittura orientato a creare in natura ciò che non c’è. Il lavoro psicoanalitico rivela però che il vacillare delle identità sessuali non è privo di effetti. “Uomini e donne si scoprono incerti nell’assegnazione del loro ruolo rispettivo, sfrattati dalla sicurezza che ne derivava, colpiti entrambi da una sorta di indecisione, di annebbiamento, di illegittimità di fondo” (C. Ternynck, L’uomo di sabbia e perdita di sé, Milano, 2012, 45).
Fino alla sconsolata affermazione di una donna: “Bisognava rompere lo schema di domesticità ancestrale. Oggi io sono più libera di altre donne, ma anche più sola” (ivi, 45). L’aver ridotto la differenza a una questione puramente anatomica, anzi ad una variabile sciolta da ogni prospettiva biologica, significa aver invertito le parti senza risolvere il problema. Prima si privilegiava il dato naturale dimenticando quello culturale, oggi si sceglie quello culturale cancellando quello naturale.
Ma ci sarà la possibilità di non dissociare la realtà che è una e pure complessa?
L’altra differenza che è stata attenuata fino quasi ad essere cancellata è quella tra le generazioni che ha decretato la fine dell’autorità. Già nel 1959 la Arendt scriveva: “Che gli adulti abbiano voluto disfarsi dell’autorità significa solo questo: essi rifiutano di assumersi la responsabilità del mondo in cui hanno introdotto i loro figli (…). Quasi che ogni giorno i genitori dicessero: ‘In questo mondo anche per noi è un mistero come ci si debba muovere, che cosa si debba sapere, quali talenti possedere. Dovete cercare di arrangiarvi alla meglio, e in ogni modo, non siete autorizzati a chiederci conto di nulla. Siamo innocenti, ci laviamo la mani di voi” (H. Arendt, La crise de l’education, 245).
Si è prodotto così una sorta di disimpegno educativo, i cui effetti non hanno tardato a manifestarsi: iperattività, disturbi fobici, aumento della violenza, delinquenza giovanile, e in modo più ampio predisposizione alla depressione, alla dipendenza di vario genere. È sintomatico che proprio i figli cresciuti in nome dell’autonomia siano quelli più segnati da forme di dipendenza patologica. Il bambino non è più orientato verso l’adulto per imparare, ma si interpreta come un pari grado, che contratta i suoi spazi, eludendo la relazione asimmetrica tra genitori e figli e spesso imponendo un sottile ricatto affettivo. Ieri la parola d’ordine era: “Obbedisci, capirai più tardi!”.
Oggi è: “Adesso ti spiego in modo da metterci d’accordo…”. Un simbolo di questa metamorfosi è quel che fa notare O. Rey, per il quale a partire dagli anni Settanta, l’orientamento dei passeggini cambia di 180 gradi: il bambino non è più rivolto verso l’adulto che lo spinge, ma in avanti. Questa tendenza all’apparenza liberale dei genitori che dicono ai figli: “Fai da solo, fai da te… Fai quel che vuoi, ma fallo bene!”, va collocata dentro il rifiuto della dipendenza che gode di cattiva stampa.
E non ci si rende conto che così facendo si accelera la fuoriuscita dall’infanzia per entrare in un periodo infinito adolescenziale, senza mai approdare all’età adulta. Oggi il bambino non può più contare a lungo sull’altro. Il troppo permissivismo sembra peraltro la nemesi dell’autoritarismo di ieri, ma educare un figlio significa aiutarlo, grazie al gioco alternato di autorizzazione e divieto, a trovare il luogo del suo desiderio e ad ancorarsi ad esso.

In famiglia si comunica a partire dai pregi e dai limiti
In secondo luogo, la famiglia è la scuola dove si impara ad integrare e non a scartare sia le fatiche che le risorse dello stare insieme, sia i limiti che i pregi di ciascuno. “Nella famiglia è, soprattutto, la capacità di abbracciarsi, sostenersi, accompagnarsi, decifrare gli sguardi e i silenzi, ridere e piangere insieme, tra persone che non si sono scelte e tuttavia sono così importanti l’una per l’altra, a farci capire che cosa è veramente la comunicazione come scoperta e costruzione di prossimità” (Messaggio).
Il caso più eloquente di assunzione del limite sono le famiglie con figli segnati da una o più disabilità. Ma la questione del limite va affrontata in senso più ampio perché il processo di de-moralizzazione è stato martellante. Al punto che i genitori sembrano totalmente conquistati dall’idea che, per crescere e aver fiducia in sé, il bambino non debba mai sentirsi messo in discussione. In realtà, il male non è estinto, anzi ingigantisce, ma la tendenza è a vederlo sempre fuori di sé e a interpretare il ruolo della vittima.
Per questo si è tutti più litigiosi e lamentosi e dentro di ognuno c’è sempre una stilla di rivendicazione. C’è invece bisogno di ritrovare il senso del male, del limite e del peccato perché solo così si diventa responsabili degli altri. Abbiamo sognato di essere tutti in stato di grazia, nel giardino dell’innocenza, ma non è così. Dobbiamo farcene una ragione. Bisogna ritrovare questo sguardo realista su di sé e sugli altri che ci restituisce il senso morale e aiuta a camminare sui carboni ardenti della conflittualità della vita. Diversamente cresce il mutismo e il reciproco disinteresse che impedisce qualsiasi confronto, col rischio di sentirsi i più giovani abbandonati a se stessi e gli adulti definitivamente estromessi dalla vita.

La famiglia è una risorsa e non un bersaglio della comunicazione
In terzo luogo, la famiglia è non tanto la vittima designata quanto il contro-ambiente necessario di questa straordinaria stagione delle rete. Tutti conosciamo l’impatto che questa nuova condizione digitale ha prodotto nelle vite di ciascuno e anche nelle dinamiche familiari. Talora si mette tutto sul conto della tecnologia come la causa scatenante dell’infragilirsi del legame familiare, del segregarsi di ognuno davanti al proprio dispositivo tecnologico. Nessuno può sottovalutare che le nuove performance digitali abbiano dilatato il nostro modo di essere e di comunicare ben al di là dei nostri territori fisici. E tuttavia è verissimo quel che annota il Papa quando scrive che “i media più moderni possono sia ostacolare che aiutare la comunicazione in famiglia e tra famiglie” (Messaggio).
Con il che lascia intendere che non è il determinismo tecnologico, né tantomeno il dualismo tra la vita reale e quella virtuale, che possono spiegare cosa sta accadendo. In realtà, Ipad, Iphone, Ipod non cambiano automaticamente il nostro modo di essere e di vivere se manteniamo una cura vigile della nostra intelligenza e della nostra gestione del tempo. È importante, dunque, che la famiglia non sia soltanto un campo di battaglia tra tecno-entusiasti e tecno-pessimisti, tra nativi ed immigranti digitali. La famiglia può essere piuttosto come il naturale contro-ambiente per ridurre l’impatto della rete priva di contatto fisico e ritrovare nell’incontro faccia a faccia e nel racconto da persona a persona l’antidoto a una certa chiusura individualistica, ad un certo autismo comunicativo, ad un certo isolamento relazionale.
Si comprende alla fine del Messaggio che la famiglia più che essere un target della comunicazione, come in certo genere pubblicitario, è invece il core business della stessa comunicazione, meno centrata sulla logica informativa e più capace di liberare la sua forza narrativa, come dimostra una recente indagine europea che ha fotografato il rapporto con Internet di circa 25000 ragazzi. La ricerca attesta che l’85% degli interpellati usa la rete per i compiti, ma quando si tratta di parlare di cose importanti solo l’8,4% degli adolescenti dichiara di affidarsi ai social network, mentre il 75% dei giovani ritiene importante affrontare le questioni di persona, parlando faccia a faccia.
Non sarà che la comunicazione si impara proprio in famiglia?

Mons. Domenico Pompili, Vescovo di Rieti