Convegno “La via della misericordia”- Roma 30 aprile-1 maggio 2016

Relazione di Alessandro Gisotti

La Fraternità Francescana Frate Jacopa ha promosso come tappa del cammino giubilare a Roma, presso l’Istituto Salesiano Gerini, il Convegno “La via della misericordia” per indagarne con autorevoli esperti la fecondità sul piano personale e sociale.
La brillante relazione del Dott. Alessandro Gisotti (vice caporedattore alla Radio Vaticana e docente di Comunicazione alla Pontificia Università Lateranense) ha aperto il Convegno sabato 30 aprile, portando in presenza, attraverso tre opere d’arte e i messaggi di Papa Bergoglio per le Giornate Mondiali delle Comunicazioni sociali, i tratti della via della misericordia e la nostra responsabilità di annunciarla.
Ne diamo pubblicazione in questa prima parte dello Speciale assieme alla traccia della magistrale relazione di S.Em. Card. Velasio De Paolis sul tema “Misericordia e conversione”. La seconda parte dello Speciale proseguirà nel prossimo numero del Cantico con i contributi degli altri relatori: “La misericordia nella prospettiva dell’umanesimo francescano” P. J. Antonio Merino (Pontificia Università Antonianum), “La misericordia come virtù civile” P. Martín Carbajo Núñez (Pontificia Università Antonianum) per offrire un quadro d’insieme dell’intenso e interessante Convegno.

GisottiMi ha molto colpito leggendo l’Amoris Laetitia trovare più di una citazione di scrittori che avevano parlato della famiglia in poesie e scritti, da Borges a Octavio Paz a Mario Benedetti ed altri. Francesco ci mostra, anche con questa integrazione letteraria al testo, l’orizzonte ampio che ha voluto dare al suo documento perché la famiglia non è una “cosa cattolica”, non è interesse esclusivo di noi cristiani, ma riguarda tutti coloro che hanno a cuore le sorti dell’umanità.
Proprio prendendo spunto da questa scelta e cercando di farla mia, proverò anche io a tracciare un cammino che parli di misericordia e di che cosa voglia dire comunicare la Misericordia, in Papa Francesco, utilizzando come tappe di questo percorso tre opere d’arte. Ad ognuna di queste tappe corrisponde una parola, un segnale, se vogliamo, che condurrà alla seconda parte del mio intervento quando – prendendo spunto dai tre messaggi di Papa Bergoglio per le Giornate Mondiali delle Comunicazioni Sociali – proverò a sottolineare tre modalità di comunicazione che il Papa indica ai comunicatori, ma in realtà ad ognuno di noi. Come ha detto Francesco, infatti, “l’amore, per sua natura, è comunicazione” e dunque come esseri capaci di amare, noi esseri umani siamo tutti naturalmente comunicatori.

Il Colonnato di Bernini: una “Chiesa in uscita” per portare la Misericordia
Il primo dipinto, che ci parla dell’incontro, è in realtà un’opera incompiuta: si tratta di uno schizzo del Bernini raffigurante la Basilica di San Pietro e il Colonnato con sembianze umane. La Cupola ha l’aspetto della testa di un uomo che sormonta un corpo, la facciata di Maderno, mentre le braccia – il Colonnato – si allungano a dismisura come se volessero raggiungere il traguardo, o meglio l’uomo, più lontano. Di questo disegno, così essenziale, certo non bello eppure dal significato straordinario, cogliamo istintivamente una volontà di abbraccio, una tensione plastica verso l’incontro, una Chiesa letteralmente “in uscita” come direbbe Francesco, in uscita per portare la Misericordia di Dio ad ogni essere umano, in ogni luogo e in ogni tempo.
Come già in San Giovanni Paolo II, anche in Francesco la dimensione dell’annuncio prende il largo, non ha paura di camminare su terreni inesplorati. Ma pensiamo per un attimo agli Apostoli, dopo Pentecoste. Anche loro si sono messi in cammino verso ogni angolo della Terra. La missione che è stata affidata loro non è stata quella di rimanere comodamente chiusi nel Cenacolo, confermandosi nella propria fede. La missione è stata di uscire, di andare, di spiegare le vele anche non conoscendo in partenza da dove avrebbe soffiato il vento.f
La misericordia, ci dice e ripete Francesco oggi, non è – come non lo era anche duemila anni fa – un dono per pochi eletti, per pochi intimi. È un dono da condividere. E per condividere un dono è necessario incontrare l’altro. Un regalo, se è davvero importante, non si consegna per interposta persona. Abbiamo il desiderio di darlo noi stessi. E proviamo gioia quando vediamo che chi lo riceve lo apprezza. A questa dinamica del dono attraverso l’incontro – non un dono attraverso postalmarket, o forse oggi dovremmo meglio dire attraverso eBay – ci spinge Francesco dall’inizio del Pontificato e ora con particolare vigore durante questo Giubileo della Misericordia. Ecco perché Jorge Mario Bergoglio ha sempre sottolineato, pur facendo storcere il naso a qualcuno, che preferisce una “Chiesa incidentata” ma in movimento, piuttosto che una Chiesa “perfetta e intonsa”, ma ferma. Nessuno di noi, in fondo, riterrebbe utile una bellissima autovettura senza un graffio, parcheggiata però costantemente in garage. A cosa serve, una macchina che non cammina? A cosa serve dunque una Chiesa che non annuncia il suo Signore?
L’incontro è il primo passo, ma già in sé racchiude tutto ciò che ne deriva di conseguenza. L’incontro con la misericordia è fecondo, infatti, ci orienta come una bussola. Non stupisce allora che Francesco ripeta con tanta frequenza una frase della Deus Caritas Est quando Benedetto XVI afferma che “all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”. Dio bussa alla porta del nostro cuore, ma – come ha affermato in un’omelia a Casa Santa Marta – ha bisogno di noi, è necessario che noi apriamo quella porta per dare inizio all’incontro. La misericordia dunque inizia, ci raggiunge con un incontro.

“Il figlio prodigo” di Rembrandt: la verità si annuncia con tenerezza
La seconda opera a cui faccio riferimento è il celeberrimo dipinto di Rembrandt, “Il ritorno del figlio prodigo”, che ovviamente ritroviamo in tante occasioni in questo Giubileo e che è anche raffigurato, o almeno un suo dettaglio, nella medaglia celebrativa dell’Anno Santo. Nel dipinto, osserviamo il figlio prodigo, lacero e stanco, che dopo un lungo cammino, non solo esteriore, riacquista la dignità grazie all’abbraccio del Padre che, per riprendere le parole di Francesco al suo primo Angelus il 17 marzo 2013, “non si stanca mai di perdonare”.
C’è un particolare in questo quadro che si può scoprire solo avvicinandosi alla tela, solo diventando quasi parte integrante della scena culminante di quella parabola, tante volte ascoltata. Le mani del padre poggiate sulle spalle del figlio sono asimmetriche, di più: se una mano è chiaramente maschile nei tratti, l’altra è immediatamente percepibile come una mano femminile, una mano materna. Dio ci ama come un padre, ma anche come una madre, ha voluto dire il genio di Rembrandt.
Questo affascinante dettaglio mi ha fatto pensare a come Francesco interpreti l’affermazione della verità: con la forza di un padre nei suoi contenuti, ma con la tenerezza di una madre nella sua espressione. “Amore di padre e di madre – dirà Francesco nell’omelia del 16 ottobre 2015 a Santa Marta – perché anche Dio dice che lui è come una madre con noi; amore, orizzonti grandi, senza limiti, senza limitazioni”. E non ci lasciamo “ingannare – è il suo avvertimento – dai dottori che limitano questo amore” che “portano via la chiave della conoscenza”. “Voi – è il suo monito a chi vuole ridurre la misericordia di Dio ad una dimensione umana, ristretta, limitata – non siete entrati, e a quelli che volevano entrare voi glielo avete impedito”.
Un passaggio che a me fa venire in mente quello che il Pescatore, di cui Francesco è il 265.mo Successore, scriveva nella sua Prima Lettera: “Siate pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia – ripete Pietro ad ognuno di noi – questo sia fatto con dolcezza e rispetto”. La verità va dunque annunciata in modo chiaro, ma con tenerezza e con sano realismo perché, avverte Francesco nell’Amoris Laetitia, “credendo che tutto sia bianco e nero, a volte chiudiamo la via della grazia”. La misericordia dunque inizia con un incontro e ha bisogno di tenerezza per abitare in mezzo a noi.

“Scienza e carità” di Picasso: solo l’amore restituisce la dignità
Il terzo dipinto che vorrei sottoporre alla vostra attenzione è un’opera giovanile di Picasso, “Scienza e carità” dipinto all’età di 15 anni e che gli valse la fama nazionale, nella sua Spagna. È interessante ricordare che Picasso, con un’affermazione iperbolica e tuttavia molto profonda, sosteneva di avere impiegato 13 anni per imparare a dipingere come Raffaello, ma di aver poi impiegato tutta la vita per imparare a disegnare come un bambino. In questo dipinto, vediamo una donna malata al letto, con accanto a sé un dottore che seduto le tiene il polso in un atteggiamento immediatamente riconoscibile.
picassoDall’altro lato del letto, la prima figura che incontriamo guardando il dipinto è una suora che tiene in braccio un bambino proteso – innanzitutto con lo sguardo – verso quella che, non c’è bisogno di interpretazioni, è sicuramente sua madre. Questa scena così semplice, così potente, così “senza tempo”, mi ha ricordato alla mente le tante immagini di Francesco assieme ai malati, ora al termine dell’udienza generale, ora in un ospedale pediatrico come ultimamente è accaduto nella sua visita a Città del Messico, ora a Casa Santa Marta dove, qualche settimana fa, ha ricevuto un bambino affetto da una malattia rara. Con questi gesti, Francesco testimonia che, per quanto siano necessari e benvenuti i progressi della scienza, sarà sempre la carità, l’amore a donare dignità alle persone ferite nel corpo e nell’animo.
Penso che tutti ricordiamo, e ricorderemo, l’abbraccio di Francesco a Vinicio, un uomo affetto da neurofibromatosi, una malattia terribile che provoca la deturpazione del viso e del corpo che si ricopre di escrescenze. Qualche tempo dopo quell’incontro – le cui immagini hanno fatto il giro del mondo e che qualcuno ha paragonato al bacio di San Francesco d’Assisi al lebbroso – Vinicio ha raccontato la sua storia di sofferenza al settimanale Panorama.
Due passaggi mi hanno colpito di quella intervista. “Una volta, sulla corriera – ha raccontato – volevo sedermi davanti, vicino all’autista. Ma un passeggero mi ha detto: ‘Vai via, vattene in fondo tu, che mi fai orrore e non ti voglio vedere’. Nessuno, neanche l’autista, mi ha difeso. Mi ha fatto molto male”. A quest’uomo è stata negata la dignità. Ed ecco come Vinicio ricorda l’emozione dell’abbraccio con Francesco: “la cosa che più mi ha colpito è che non sia stato lì a pensarci se abbracciarmi o meno. Io non sono contagioso, ma lui non lo sapeva. Però l’ha fatto e basta: mi ha accarezzato tutto il viso, e mentre lo faceva sentivo solo amore”. L’amore misericordioso restituisce la dignità. Dunque, come in quei giochi della settimana enigmistica dove siamo chiamati ad unire i puntini per ricavarne una figura, congiungiamo le tre parole che ho voluto porre sulla cornice di questi tre dipinti: l’incontro, la tenerezza, la dignità. “La via della misericordia”, per riprendere il titolo di questo nostro incontro, inizia con un incontro, ma ha bisogno di tenerezza per crescere e ridarci quella dignità che abbiamo perduto con il peccato originale.

Farsi prossimi per comunicare, non aver paura di andare in strada
Ricordo che c’era molta attesa, soprattutto tra i giornalisti, per la pubblicazione del primo messaggio di Francesco per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali. Da cardinale, Bergoglio non aveva concesso molte interviste e si era mostrato poco interessato alle nuove tecnologie di comunicazione.
Con quella franchezza, che tutti abbiamo ben presto conosciuto, quando era ancora arcivescovo di Buenos Aires – rispondendo alle domande dei giornalisti argentini Rubin e Ambrogetti – aveva affermato che si sarebbe dedicato a imparare ad usare il computer una volta in pensione. Lo Spirito Santo ha avuto un altro progetto per lui. Cosa avrebbe dunque potuto dire ai comunicatori il nuovo Papa? Le aspettative per quel messaggio non furono deluse. Francesco infatti traccia, con quel documento, quasi una parabola del “Buon Comunicatore” al servizio di un’autentica cultura dell’incontro.
Al centro del ragionamento del Papa sta la definizione del potere della comunicazione come “potere della prossimità”. Questo ha molto a che vedere con la Misericordia. Se infatti il Buon Samaritano non avesse avuto un cuore misericordioso non si sarebbe fatto prossimo al povero viandante che giaceva per terra, mezzo morto, sulla via di Gerico. Allo stesso modo, il comunicatore deve farsi prossimo. “Non si tratta di riconoscere l’altro come un mio simile – annota il Papa nel suo primo messaggio ai comunicatori – ma della mia capacità di farmi simile all’altro”.
La prospettiva, dunque, è totalmente ribaltata. Oggi, invece, avverte, il rischio che corriamo è che alcuni media ci condizionino “al punto da farci ignorare il nostro prossimo reale”. Anche nel Continente digitale, è la sua esortazione, occorre che “la connessione sia accompagnata dall’incontro vero”. Altrimenti, come ha osservato qualcuno, rischiamo di essere tutti più connessi e tutti, al tempo stesso, più isolati. Francesco vuole invece che la Rete digitale sia un luogo “ricco di umanità, non una rete di fili ma di persone umane”.
L’esempio che ci dà il Papa in questo senso è eloquente e affascinante: che si tratti di una conversazione con dei bambini piuttosto che di un’udienza ufficiale con un capo di Stato, Bergoglio non ha paura di farsi prossimo. Non teme una perdita di autorevolezza nel raggiungere e toccare lo spazio del suo interlocutore. Anzi, è proprio questa prossemica interiore, oltre che esteriore, tutta sbilanciata verso l’altro che rende il suo messaggio più efficace. Con lui, ha affermato l’arcivescovo di Campobasso Giancarlo Maria Bregantini, la sinodalità, la modalità di governo della Chiesa è passata dalla Cattedra alla strada.
Tutto il suo ministero petrino vive proprio nella e della dimensione sinodale. Ecco: la strada è proprio il luogo dove ci si può fare prossimi, ci ripete Francesco. Del resto, come lui stesso già notava negli anni argentini, se ci domandiamo in quale luogo Gesù abbia passato più tempo, i Vangeli ci offrono una risposta inequivocabile: la strada. La prima parola dunque che ho personalmente trovato nella lezione che Francesco ci offre per una comunicazione di misericordia è prossimità, farsi prossimi.

Per comunicare la misericordia ci vuole coraggio!
La seconda tappa di questo percorso è coraggio. Ci vuole coraggio per essere misericordiosi perché questo comporta essere “controcorrente”, ha detto Francesco agli adolescenti di tutto il mondo nel Giubileo dei Ragazzi, appena celebrato. E il tema del coraggio, seppure come parola non sia presente, scorre sotto la superficie di tutto il messaggio per la 49.ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, incentrato sulla famiglia. Questa, rileva Francesco, è del resto “il primo luogo dove impariamo a comunicare”. Ci vuole coraggio per dire “permesso, scusa, grazie” – in famiglia lo sappiamo bene – ci vuole coraggio per riconoscere i propri limiti e peccati. La famiglia, scrive ancora il Papa, “può essere una scuola di comunicazione come benedizione”, una “scuola di perdono”. E aggiunge: “il perdono è una dinamica di comunicazione”.gisotti 2
Coraggio e perdono sembrerebbero apparentemente due termini distanti. Sicuramente lo pensava Friedrich Nietzsche che riteneva il Cristianesimo una religione di deboli e perdenti anche per il suo appello al perdono delle offese subite. In realtà, nella prospettiva della Misericordia di Dio, coraggio e perdono si chiamano, si cercano tra loro. Hanno bisogno di incontrarsi.
Al riguardo trovo sublime un racconto di Jorge Luis Borges, scrittore molto amato da Bergoglio che, da giovane professore di lettere, volle che incontrasse i suoi studenti. Il poeta argentino immagina l’incontro di Caino e Abele dopo la morte. I due, essendo molto alti, si scorgono di lontano, si fanno prossimi e l’uno davanti all’altro cominciano a mangiare. In silenzio. D’improvviso, Caino guarda il fratello, trova il coraggio di dirgli ciò che non poteva trattenere: “Abele, io ti ho ucciso, tu mi devi perdonare”. La risposta del fratello è sorprendente: “Non ricordo che tu mi abbia ucciso. Stiamo qui insieme come prima”. E Caino, con il cuore finalmente quieto, risponde: “Ora so che mi hai perdonato perché dimenticare è davvero perdonare. E anche io cercherò di dimenticare”. Il coraggio quindi di perdonare, ma – non meno importante – il coraggio di lasciarsi perdonare.
Trovo molto bello, commuovente per umiltà, come Francesco si sia autodefinito nell’intervista al suo confratello gesuita, il direttore di Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro: “Sono un peccatore al quale il Signore ha guardato”. Sì, ci vuole coraggio nel comunicare la misericordia, con il suo linguaggio di tenerezza. È il coraggio di Lucia che, prigioniera dell’Innominato, fa breccia nel suo cuore con quella semplice, coraggiosa, dirompente affermazione: “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia”. Per sviluppare una comunicazione di misericordia, ci dice ancora il Papa, dobbiamo avere il coraggio di “reimparare a raccontare, non semplicemente a produrre e consumare informazione”. È quello che Francesco fa quotidianamente, a partire dalle omelie del mattino a Casa Santa Marta: raccontare la vita di Gesù, raccontarla intrecciandola con le nostre vite, le nostre storie in una trama unitaria.

Ascoltare, anche se a volte è comodo far finta di essere sordi!
L’ultima svolta di questa strada che ho voluto percorrere verso il traguardo di una comunicazione di misericordia ci conduce alla parola ascolto, lente d’ingrandimento per mettere a fuoco il Messaggio per la 50.ma Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali. In questo documento, giubilare fin dal titolo: “Comunicazione e misericordia, un incontro fecondo”, il Papa evidenzia che “comunicare significa condividere e la condivisione richiede l’ascolto”.
E rileva che “ascoltare è molto più che udire”. L’udire, infatti, riguarda “l’ambito della informazione; ascoltare, invece, rimanda a quello della comunicazione e richiede vicinanza”, prossimità potremmo aggiungere noi. È molto significativo che, in un tempo e in un mondo che vuole riempire di parole ogni spazio, Francesco proponga – per di più in un messaggio indirizzato ai comunicatori – di riscoprire il valore del silenzio. E dell’ascolto.
Cosa ha fatto in fondo Francesco a Lesbo se non ascoltare in silenzio i racconti strazianti, disperati di coloro che hanno potuto incontrarlo? Al campo profughi di Moria, il Papa ha messo in pratica quell’ascolto- terapia, la escucho-terapia, di cui aveva parlato ai giovani nel suo viaggio apostolico in Messico. O, se vogliamo, quell’apostolato dell’orecchio a cui fa riferimento nel libro-intervista di Andrea Tornielli, “Il nome di Dio è Misericordia”.
A Lesbo, mentre la sua veste si bagnava letteralmente delle lacrime di bambini e di mamme che gli si gettavano al collo, Francesco ha proprio dato carne alle parole del suo ultimo Messaggio per le comunicazioni laddove scrive che “ascoltare significa prestare attenzione, avere desiderio di comprendere, di dare valore, rispettare, custodire la parola altrui”. Se dunque, Pier Paolo Pasolini, incontrando nel 1961 in India Madre Teresa, poteva dire di lei: “il suo occhio dove guarda, vede”, oggi possiamo dire di Francesco che “il suo orecchio dove sente, ascolta”.
A volte, commenta il Papa con disarmante ironia, “è più comodo fingersi sordi”. Tuttavia, comunicare implica intessere una relazione e questa dinamica non può neppure prendere avvio se non siamo disposti ad ascoltare. Per ritornare al primo punto allora possiamo affermare che Il Buon Samaritano non solo ha guardato, ha visto. Non solo ha udito, ha ascoltato. Così dovrebbe essere un “Buon Comunicatore” di Misericordia, per Francesco: capace di vedere, pronto ad ascoltare per farsi prossimo a chi è nel bisogno.

Alessandro Gisotti
vice-caporedattore alla Radio Vaticana
e docente di Comunicazione alla Pontificia
Università Lateranense

incontro alle radici della fede