Al netto degli scarsi risultati della Cop27 (ribadito l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale a 1,5 gradi ma nessuno stop ai combustibili fossili), tocca a ciascuno di noi fare qualcosa per salvare la casa comune: cambiare abitudini alimentari e disinvestire dalle fonti fossili.
La Cop27 di Sharm El-Sheik si è conclusa con un sostanziale nulla di fatto. Su tutte le questioni più urgenti e dibattute nessuna decisione è stata presa.
Unico risultato di rilievo, più morale che sostanziale, è stata la costituzione del Fondo Loss&Damage. Il cosiddetto “gruppo dei 77”, costituito dai paesi più poveri, chiedeva da anni la creazione di un fondo per risarcire i danni da loro subiti a causa di un cambiamento climatico che in gran parte dipende dalle emissioni dei paesi più ricchi. Una vera ingiustizia che chiede di essere sanata. Ma le resistenze di Usa, Cina e India a impegnarsi al suo finanziamento avevano fin qui impedito la sua costituzione. La forte presa di posizione del vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans, sostenuto soprattutto da Irlanda e Germania, ha permesso di sbloccare la situazione. Tuttavia, il Fondo Loss&Damage è, almeno per ora, una scatola vuota: entità e regole di finanziamento, criteri per definire chi deve pagare e chi può ricevere fondi sono ancora tutti da scrivere. La questione è stata demandata a un comitato transitorio che dovrà presentare una proposta da discutere alla COP28 dell’anno prossimo.
Niente di nuovo invece per il Fondo di sostegno alle politiche ambientali dei paesi più poveri di cui si chiedeva l’innalzamento: già previsto dagli Accordi di Parigi, tale fondo doveva essere finanziato con 100 miliardi annui, impegno fin qui ampiamente disatteso.
Nessun impegno per la riduzione delle fonti fossili
Nessun impegno nel documento finale è stato preso per la riduzione delle fonti fossili; l’eliminazione del carbone dalle fonti di energia è stata sostituita da una graduale riduzione, ma solo per la parte “non compensata”. Sul tema della deforestazione è stata importante la presenza di Lula, eletto per la terza volta alla presidenza del Brasile, e il suo solenne impegno per la preservazione dell’Amazzonia.
L’obiettivo deliberato a Parigi di contenere il riscaldamento globale a 1,5° rispetto all’epoca preindustriale è stato confermato (e non rivisto al rialzo come qualche paese aveva chiesto), ma gli impegni attuali di riduzione delle emissioni sono largamente insufficienti. Secondo l’Onu occorre una riduzione del 43% delle emissioni entro il 2030 rispetto al 2019 per stare su un sentiero di +1,5°.
Il rischio di “caos climatico”
Ad oggi gli impegni degli stati riducono le emissioni solo dello 0,3%: al ritmo attuale il riscaldamento globale appare abbondantemente superiore a 2,5°, un livello che rischia di innescare effetti climatici non lineari e non controllabili, il cosiddetto “caos climatico”, con ricadute ambientali, sanitarie, economiche, migratorie difficilmente stimabili.
Già stiamo toccando con mano gli effetti di queste scelte e mancate decisioni: la temperatura media è oggi 1,15° più elevata della media preindustriale; gli ultimi 8 anni sono stati i più caldi dal 1880, da quando cioè è iniziata la rilevazione. Il riscaldamento globale sta chiaramente accelerando ed è molto probabile che i 1,5° saranno raggiunti già nel 2040.
I segni di questo deterioramento sono sotto gli occhi di tutti: crisi ambientali, inondazioni, perdite di raccolto, desertificazione, aumento di eventi metereologici estremi, innalzamento dei mari (+0,20m ad oggi), acidificazione degli oceani, scioglimento di ghiacciai e calotte polari, perdita rapida di biodiversità, tema che sarà al centro del prossimo UN Global Biodiversity Summit (Montreal, 7-19 Dicembre).
Che fare, dunque?
È chiaro che in mancanza di seri impegni a livello globale, il riscaldamento climatico dipenderà da quanto singoli governi, imprese, cittadini decideranno e faranno nei prossimi anni. Qui qualche segnale incoraggiante arriva dai grandi paesi emergenti, Cina e India in primis, dall’Ue e dagli Stati Uniti, i quali stanno incrementando i loro investimenti sulla transizione energetica. Un impegno che, tuttavia, non è sufficiente a realizzare l’obiettivo di zero emissioni nette fissato alla Cop26 per il 2050: non a caso la Cina lo ha spostato al 2060 e l’India al 2070.
Il nostro paese, anche da questo punto di vista, non brilla. Nonostante gli ingenti obiettivi di decarbonizzazione inseriti nel Pnrr, si continua a investire nell’estrazione e nella trasformazione di combustibili fossili. Nel frattempo la transizione verso le energie rinnovabili è ancora molto lenta: l’Italia produce solo il 33% dell’energia delle rinnovabili, ben al di sotto dell’obiettivo del 45% fissato a livello europeo. La crisi della guerra in Ucraina e il drammatico aumento dei costi energetici rischiano di frenare il processo di decarbonizzazione, mentre la risposta a lungo termine per la sicurezza energetica del paese è data proprio da un deciso passaggio alle rinnovabili.
Cambiare abitudini alimentari e disinvestire dalle fonti fossili
Imprese, cittadini, terzo settore, Chiese possono fare molto. Cambiare abitudini di consumo, aumentare l’efficienza energetica di case, uffici e impianti di produzione, condividere e autoprodurre energia individualmente o nell’ambito delle Comunità energetiche, investire i propri risparmi in produzioni sostenibili e a basso impatto climatico sono azioni che possono fare la differenza nella lotta al riscaldamento globale.
Due scelte sono oggi particolarmente rilevanti. Il primo riguarda le abitudini alimentari.
L’allevamento intensivo di bestiame genera circa il 30% di emissioni di gas serra: non solo CO2, ma soprattutto metano e azoto, molto più dannosi e persistenti. Per dare un contributo significativo non è necessario diventare vegani o vegetariani, ma occorre ridurre i propri consumi e concentrarli su carni di qualità (ma anche formaggi, insaccati e latticini), a chilometro zero, prodotte con metodi rispettosi dell’ambiente e della vita dell’animale.
Più salutari per noi e per l’ambiente.
Una seconda scelta importante è quella di disinvestire dalle fonti fossili. A oggi, una ventina delle principali compagnie mondiali dell’oil & gas stanno pianificando investimenti in progetti di estrazione per quasi mille miliardi di dollari. Una vera “bomba climatica” che rischia di far fallire ogni tentativo di frenare la crescita delle emissioni.
Smettere di acquistare azioni e obbligazioni di queste compagnie (o dei Fondi che le sostengono) è una scelta di rilevanza etica ma anche un segnale efficace per gli operatori finanziari.
La campagna internazionale Divestment
Per questo molte diocesi, le congregazioni religiose, le associazioni, a partire da Azione cattolica, hanno aderito alla campagna internazionale Divestment portata avanti dal Movimento Laudato Si’ e inserita fra le linee d’azione della Settimana Sociale di Taranto, impegnandosi a dismettere nell’arco di cinque anni i propri investimenti in imprese che producono petrolio e gas. Sostenere la decarbonizzazione con scelte concrete è l’unico modo per difendere e promuovere un futuro aperto alla vita, per noi e per le prossime generazioni.
Sebastiano nerozzi
Segretario del Comitato scientifico
e organizzatore delle Settimane sociali dei Cattolici italiani. Professore associato
di Storia del pensiero economico
e Storia economica presso la Facoltà di Economia
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
Il Cantico
ISSN 1974-2339
Pubblicazione riservata