Il saluto pasquale
cristo prLa Leggenda dei Tre Compagni racconta che il saluto francescano “Pace e bene” era molto diffuso ad Assisi grazie ad un precursore di S. Francesco. Ma “come Giovanni il Precursore si tirò in disparte appena Gesù cominciò la sua missione, così anche quell’uomo, simile a un secondo Giovanni, precedette Francesco nell’augurio di pace, e scomparve dopo l’arrivo del Santo” (FF 1428) a cui fu rivelato il nuovo saluto “Il Signore ti dia pace” (FF 121).
È questa un’espressione che evidenzia maggiormente l’origine pasquale della pace. Infatti nelle apparizioni dopo la Pasqua Gesù salutava i discepoli dicendo: “Pace a voi!”, evidenziando così che la pace è portata da Dio, è un dono mistico. È più grande dell’uomo, è espressione di Dio nell’uomo, non un prodotto dell’uomo che la può solo ricevere ed offrire a mani vuote, come faceva S. Francesco all’inizio delle sue prediche.

Il cavaliere di Cristo
Il Santo e i suoi frati andavano nel mondo ad annunciare la pace insieme alla penitenza (cfr. FF 366).
Questo abbinamento non ci deve far pensare ad un atteggiamento pacioccone di chi sopporta nella sofferenza i soprusi e si ritrae dalla lotta standosene in pace nel proprio mondo, magari col conforto della preghiera. Significherebbe subire un’astuzia luciferina!
Al contrario S. Francesco, pur essendo un uomo di pace, aveva lo spirito del cavaliere che combatte per il suo Signore e i suoi frati erano i “cavalieri della Tavola rotonda” (FF 1624. 1766). Ma sapeva bene che “se voleva diventare cavaliere di Cristo doveva prima vincere se stesso” (FF 1034) attraverso la penitenza.
Il motto dei Romani: “Se vuoi la pace prepara la guerra” (“Si vis pacem para bellum”) può essere recuperato in un’interpretazione personalista secondo la quale la guerra, non combattuta con le armi (di cui S. Francesco vietava l’uso ai laici francescani), viene intesa come lotta contro se stessi attraverso la penitenza per uscire dalla pretesa di centralità di sé, dall’orgoglio che è il male del nostro tempo e che ci influenza nostro malgrado.

Il super-uomo
L’attuale cultura secolarizzata prova risentimento verso Dio a causa della presenza nel mondo del dolore, del male, della morte…; perciò rifiuta la dipendenza da Dio ed enfatizza l’io che rivendica la libertà di fare ciò che vuole e di potersi evolvere da solo e spontaneamente. La nostra è l’epoca del super-uomo.
Ma l’orgoglio dell’uomo non è stato in grado di portare la pace, nemmeno la pace intesa solamente come assenza di guerra, poiché è all’origine del disprezzo e del desiderio di dominio tra gli uomini!
È urgente, soprattutto oggi, recuperare la parola “pace”!

La riconciliazione nella povertà
Nel linguaggio francescano troviamo la pace come profonda esigenza dello spirito e perseguita attraverso la penitenza intesa come lotta in se stessi per un cambiamento interiore che superi il nostro egoismo, la nostra istintività, il nostro orgoglio.
La lotta interiore, che porta ad essere uomini di pace, si fonda sulla povertà-umiltà, cioè sulla consapevolezza di essere solo creature e, in quanto tali, di aver bisogno di un continuo rapporto col Creatore per poter essere mantenuti in vita.
Il povero di spirito è libero dall’orgoglio e ha la disposizione di spirito che gli consente di fare spazio a Dio dentro di sé. Nel vuoto di sé il povero può vedere Cristo come il Tu pieno di misericordia e di amore, che lo accompagna, in ogni istante della vita, in un continuo dialogo per insegnargli a rapportarsi col Padre. Solo Cristo può farlo riconciliare col Padre, come figliol prodigo che ritorna a casa sua.
Il povero è riconciliato anche con se stesso in quanto si accetta così come è, riconoscendo i propri difetti e la propria insufficienza.
Riconciliato col Padre e con se stesso si riconcilia con gli altri non più disprezzati o giudicati, non più considerati come oggetti di dominio, ma come creature create ad imitazione di Dio. E così costruisce la fraternità.

Il profeta della pace
S. Francesco era posseduto dalla pace e, come una sorgente di acqua viva che trabocca all’esterno, in ogni atteggiamento portava gli uomini alla rappacificazione. Le sue parole penetravano nell’intimo delle coscienze e toccavano vivamente gli ascoltatori. Non erano parole di rassegnazione, ma scuotevano l’affettività fino a dare il desiderio della riconciliazione.
L’ultima strofa del Cantico delle creature fu composta per rappacificare il vescovo di Assisi col podestà che così la commentò: “«… non solo il signor vescovo, che devo considerare mio signore, sarei disposto a perdonare, ma anche a chi mi avesse assassinato il fratello o il figlio»… Il vescovo gli rispose: «Per la carica che ricopro dovrei essere umile. Purtroppo ho un temperamento portato all’ira. Ti prego di perdonarmi». E così i due si abbracciarono e baciarono con molta cordialità e affetto” (FF 1616).
Questo episodio è di grande effetto, poiché noi tutti siamo figli delle immagini che sollecitano la nostra immaginazione.
Il linguaggio francescano non si inebria della speculazione (che lascia inerte l’agire), ma commuove attraverso le immagini condensate nelle parole e spinge ad agire in comunione profonda con il Tu divino per assumere la pace di Cristo, principe della pace, e poterla comunicare agli altri.

Graziella Baldo