luoghi 1L’etnologo francese Marc Augé, intervenuto recentemente al Festival delle generazioni (Bologna 9- 10 ottobre u.s.), ha coniato il neologismo “nonluoghi”, termine comparso per la prima volta nel suo libro pubblicato nel 1992 e tradotto in italiano nel 1996 col titolo: “Non-luoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità”.
Tale termine, entrato ufficialmente nei dizionari della lingua italiana dal 2003, non designa luoghi inesistenti, ma luoghi che si stanno diffondendo e moltiplicando ovunque, caratterizzati dall’anonimato, dall’estraneità reciproca di chi li occupa, privi di identità e staccati da ogni legame con la tradizione e con la storia.
Sono “spazi – per usare le parole dell’autore – della provvisorietà e del passaggio”, in cui non si condividono relazioni sociali e non si intravedono “segni di un’appartenenza collettiva”.
In questi non-luoghi Augé coglie le solitudini del viaggiatore di passaggio estraneo a se stesso e agli altri, e quelle del consumatore alienato negli ipermercati, perché ridotto alla dimensione di fruitore o cliente.
I non-luoghi sono caratterizzati dalla provvisorietà, dal transito e da un individualismo solitario, poiché anche se si è immersi nella folla che corre, anzi proprio per questo, si è sospinti come fuggitivi ad allontanarsi da quello spazio che designa un’assenza di appartenenza, un’incapacità a dirigersi verso una meta, un fine che dia senso all’esistenza.
Questi non-luoghi per Augé, fine conoscitore dei paesi africani (in particolare Costa d’Avorio e Togo) dove ha svolto gran parte delle sue ricerche antropologiche, sono l’opposto dei villaggi africani “nei quali le regole di residenza, la divisione in metà o in quartieri, gli altari religiosi delimitavano lo spazio e permettevano di cogliere nelle loro linee essenziali le relazioni tra gli abitanti”.
I non-luoghi sono tipici di quella che Augé chiama, con un altro neologismo creato da lui, la “surmodernité”, ovvero la “sovramodernità” del mondo globalizzato caratterizzato da un “triplice eccesso”: l’eccesso di tempo (sovrabbondanza di eventi, informazioni, di contatti che ci sovrastano e ci ingolfano la vita offuscando la capacità di compiere scelte e di prendere decisioni), un eccesso di spazio (velocità di spostamenti in un mondo sempre più piccolo) ed eccesso di ego (valorizzazione massima di sé a scapito della vita comunitaria).
Questi eccessi si evidenziano anche nello scontro tra due mondi che si ignorano pur sfiorandosi: il mondo dell’abbondanza del turista che è in uno spazio di transito (all’aeroporto, in un porto, in una stazione, nelle autostrade) alla ricerca del sole, del sesso facile, dall’esotismo e il mondo di chi si trova in questi stessi non-luoghi, col suo carico di miseria, in attesa di essere espulso.
Entrambi attraversano questi non-luoghi senza guardarsi e senza riconoscersi l’un l’altro. C’è un mondo di non-persone, di fuggitivi che scappano dal loro paese d’origine per cercare dei luoghi in cui sopravvivere e che Augé chiama “gli avventurieri del mondo globale, un po’ come gli eroi degli western” e un altro mondo, di nonpersone anch’esso, che costruisce muri per respingerli.
Di fronte a questi fenomeni epocali, “ricordiamoci – afferma Augé – che gli immigrati hanno avuto bisogno di partire, ma anche noi abbiamo bisogno di loro.luoghi 2
Ai non-luoghi Augé contrappone luoghi dove si intessono relazioni sociali e non regnano varie forme di individualismi solitari.
“E questo luogo di incontro dove abbiamo dialogato e ci siamo guardati negli occhi e ascoltati – ha chiesto a Augé Francesco Durante che lo ha intervistato al Festival delle generazioni – è un luogo o un non-luogo?”. “ un iper-luogo!”, ha risposto sorridendo l’etnologo francese, salutando tra gli applausi calorosi il pubblico intervenuto.
Come non condividere questa visione della vita secondo la quale gli uomini sono chiamati, per essere veramente umani, ad abitare gli spazi e non a occuparli soltanto, come fanno gli oggetti inerti?
Ivan Illich scriveva: “In numerose lingue, vivere è sinonimo di abitare. Chiedere: «Dove vivi?» significa chiedere dove la tua esistenza quotidiana forma il mondo”. Infatti abitare significa dare forma al mondo, “lasciare che la vita quotidiana iscriva le trame della propria biografia nel paesaggio”, diceva Illich.
“Abitare – per S.E. Mons. D. Pompili – è tipicamente umano perché presuppone un rapporto consapevole, fatto di scelte e responsabile, fatto di relazioni con l’ambiente e con le persone. Le città italiane, con le loro piazze e le loro vie transitabili a piedi (a differenza delle megalopoli dove le strade sono fatte per essere percorse in macchina) sono un esempio unico al mondo di sintesi tra bellezza, storia, socialità, dove gli spazi comuni sono altrettanto importanti di quelli privati”.
Come non pensare alle parole di Papa Francesco tutte proiettate verso la realizzazioni di luoghi veramente umani: “Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!” (EG 210; LS 152)?