Dagli incontri di “Frate Jacopa” al Santuario di Madonna del Sasso
In tutto il Vangelo Gesù mette in relazione strettissima l’amore di Dio e l’amore verso il prossimo, come fossero una cosa sola, un unico amore con due oggetti.
Lo Spirito Santo, nella ricchezza delle sue manifestazioni, ispira nella Chiesa la formazione di comunità, delle fraternità, proprio per darci di vivere concretamente l’amore fraterno. Proprio questa fu una delle note distintive della Chiesa primitiva: la comunità dei primi cristiani attirava per l’ amore fraterno, per come si volevano bene, basta leggere i primi capitoli degli Atti degli Apostoli per verificare ciò.
Non con tutti è possibile vivere l’amore fraterno: posso dire di amare i poveri del Burundi, però la vera difficoltà rimane quella di vivere l’amore concretamente con chi ti è vicino, con coloro che tu non hai scelto.
Una caratteristica della fraternità è che le persone non si scelgono. Se io scelgo, prediligo un gruppo che ha con me delle affinità, e lo frequento per simpatia. Ma ciò restringerebbe la capacità di donarsi, perché non ho la necessità di donare le cose che già condivido.
Tu scegli Dio e ti trovi dei fratelli che ugualmente hanno scelto Lui (Francesco nel Testamento scrive: “… E dopo che il Signore mi diede dei fratelli”…); la mia risposta personale a Dio è accettata, e subito Lui mi dona dei fratelli che ugualmente hanno scelto Dio e trovano me.
Anche nella parrocchia ciò può essere vissuto, ma è più difficile che si realizzi una vera fraternità, si può evitare la frequenza e gli impegni, ci si può dileguare facilmente e non è facile per il parroco tenere aggregata la parrocchia in tutte le sue componenti. Nella mia comunità (la Comunità dei figli di Dio) accade per esempio che quando entra un fratello nuovo io spero che sia simpatico, e in occasione dei trasferimenti viene da pensare: speriamo che il superiore non mi mandi dove c’è quel tal fratello, per me particolarmente complicato.
La Fraternità è una grazia, è un dono: è il luogo in cui Dio ci chiama a superare noi stessi. Vorrei che sentiste questa chiamata a far parte di un gruppo. Quando ci invitano a fare parte di una fraternità particolare, ci vien fatto di domandarci: “Che cosa devo fare entrando nella fraternità, quali impegni mi assumo in più?” oppure “che cosa non posso più fare?” La tendenza è quella di scappare, come Adamo dopo il peccato, per paura di perdere l’autonomia, la nostra libertà.
La fraternità invece è il luogo in cui imparo ad amare davvero. Con quelli di fuori, i lontani è facile: il rapporto è occasionale e non ti impegnano; invece non posso far finta che non esistano quelli della mia comunità.
In fraternità emergono le difficoltà, ma non perché gli altri siano difficili o antipatici o pesanti, ma perché le difficoltà sono nascoste in me, e finchè non vengo messo alla prova non mi accorgo della mia durezza di cuore.
Riguardo all’amore che si vive in fraternità, riflettiamo su due delle cosiddette “opere di misericordia spirituale”:
1. Sopportare pazientemente le persone moleste.
Santa Faustina nel diario si lamentava con il Signore di una suora a cui doveva pulire la cella e che trovava sempre tutto imperfetto; scrive: “Certe persone hanno il dono particolare di tormentare le altre. Anche le cose migliori vengono giudicate alla rovescia”. A proposito ella parlava di “martirio silenzioso”. Sì, si può essere martiri silenziosi. Le persone moleste sono lì apposta, vicine, tanto da non poterle evitare, sono lì per farci esercitare la pazienza.
Nella sua lettera Giacomo raccomanda la pazienza proponendo l’esempio dell’agricoltore e scrive “Non lamentatevi gli uni degli altri” (Gc 5,7-11). Il primo paziente è Dio, perché ha pazienza con noi. Solo il paziente può esercitare la misericordia attraverso cui il “patisco” diventa “com-patisco”, ossia partecipo con Gesù, porto il peso di quella persona. Le persone più utili per noi sono quelle moleste perché ci fanno esercitare l’amore sovrannaturale.
L’esempio di pazienza vera è Gesù con gli apostoli a cui spiegava ogni cosa, in privato, alla sera. Una volta sola Gesù si lasciò sfuggire la frase: “Fino a quando starò con voi, dovrò sopportare?”, ma ordinariamente Egli portava e sopportava tutto con una pazienza infinita. La croce, poi, è la pazienza che permette di portare su di sé il peso dell’altro. Nella Passione Gesù non rimprovera neanche il tradimento, ma nell’esercizio del silenzio assume su di sé, accetta e ama.
E’ il nostro purgatorio. Cosa dobbiamo fare se “ci scappa la pazienza”? Chiederla! La pazienza va chiesta perché è un dono dello Spirito Santo, come attesta chiaramente la lettera ai Galati.
Non giudichiamo perché non conosciamo l’altro, la sua storia e non possiamo fermarci alla prima impressione. Piuttosto nella fraternità mettiamo in comune i talenti, diamo e accogliamo i talenti, impariamo dall’altro, godendo dei doni dell’altro: allora sarà l’anticamera del Paradiso. Non invidio perché i doni sono della comunità, a beneficio di tutti. La fraternità è il regno in cui non c’è invidia, è il demonio che crea le divisioni.
2. Perdonare le offese.
Propongo una definizione di “offese”: esse sono le occasioni d’oro date da Dio per distruggere l’amor proprio. Di per sé l’offesa è un male, ma Dio ne trae il bene e quindi è una grazia.
Essa si presenta come una cannonata, abbatte la muraglia soprattutto se chi ci offende è uno che amiamo. Se noi amiamo costruirci il nostro piedistallo (e sotto sotto lo facciamo tutti), l’offesa lo distrugge. Vedete quindi che alla fine le offese sono occasioni di grazia. Gesù tace sempre di fronte alle offese e il male si scaglia su di lui: Gesù è l’uomo esposto, crocifisso, indifeso, non parla e attira tutte le offese.
Allora la prima reazione di fronte all’offesa deve essere: sto zitto bloccando l’ira. Non protesto, non reagisco, non mi difendo. Secondo: guardo l’offensore con lo stesso sguardo che ebbe Gesù verso Pietro mentre lo rinnegava di fronte ad una serva: uno sguardo di pietà, di mitezza perché l’offensore è lontano da Dio. Terzo punto: sento la pena del suo peccato. Quarto: chiedo perdono a Dio del suo peccato. Quinto: ringrazio Dio per l’offesa ricevuta.
Tutto ciò, lo riconosco, è molto difficile. Spesso non arriviamo neppure al punto 1.
Santa Teresa di Gesù Bambino racconta che una volta si trovava sul punto di offendere una consorella, e per non farlo corse via, ringraziando Dio per essere fuggita dall’occasione piuttosto che mancare di carità. Piuttosto che reagire con violenza, è meglio fuggire. Il frutto finale del perdono è la pace, la conformazione a Cristo che “maltrattato si lasciò umiliare, e non aprì bocca”.
Questo è vivere secondo lo Spirito. Secondariamente, all’offensore fa bene la nostra reazione di amore perché lo sguardo di bontà e mitezza può farlo crollare. Scrive san Paolo ai Romani: “Benedite coloro che vi perseguitano… se il tuo nemico ha fame dagli da mangiare, se ha sete dagli da bere. Vinci con il bene il male”. Invece di gioire della disgrazia del nemico, il cristiano vive il perdono delle offese, l’eroismo dell’amore fraterno.
La grazia scarica la malizia, la neutralizza, la annienta. Dio vuole la salvezza del peccatore e gli mette vicino un “parafulmine”, il mite su cui si scarica l’odio. San Serafino di Sarov, il grande eremita russo, un giorno fu assalito da due briganti che pensavano nascondesse nel romitorio chissà quale ricchezza. Egli non reagì, si lasciò picchiare terribilmente rimanendo mite. Li guadagnò con il perdono, e alla fine i due si fecero monaci.
San Massimiliano Maria Kolbe guardò con bontà indicibile i suoi assassini, i quali poi testimoniarono che i suoi occhi erano insostenibili: abituati a sguardi di odio, da lui ricevevano sguardi d’amore. Questo è il vertice del cristianesimo.
Non mi resta che auguravi di avere qualche nemico per sperimentare l’amore e concludere che la fraternità è davvero il luogo del massimo amore e delle grandi sofferenze, perché si ama molto, è il luogo del nostro massimo impegno, dove spendiamo con frutto i nostri talenti per il servizio al regno di Dio. Auguri!
p. Serafino Tognetti