IL PROGETTO
Dal desiderio e dall’esigenza di nuove forme del sapere e del linguaggio teologico, in dialogo aperto e costruttivo con la complessità del contemporaneo, un gruppo di teologhe e teologi si è radunato attorno al fuoco di un progetto, acceso da Vincenzo Paglia e alimentato da Pierangelo Sequeri. Papa Francesco, nel gesto e nella parola del suo ministero, ci ha invitato insistentemente a coltivare una sensibilità per la giustizia e una responsabilità per il nostro mondo che interpellano anche la cultura e i saperi. Rispondendo a questo invito, ci siamo incontrati e confrontati in amicizia sulle contraddizioni, le gioie, le ferite e le possibilità del tempo che abitiamo, dando avvio a un processo di riflessione che si è poi concretizzato nella forma di un appello. Questo appello si rivolge alle donne e agli uomini del nostro tempo, perché, tutti insieme sulla medesima arca, scegliamo di salvare la fraternità. Dall’introduzione dell’Appello
“Salvare la fraternità
L’appello «Salvare la fraternità» mi ha molto colpito, per la sua forza e direi anche per il suo coraggio. Mi pare che prospetti una lotta, per certi versi dura e drammatica, tra due disposizioni esistenziali che hanno implicazioni in tutti gli ambiti dell’esistenza umana: da un lato, la disposizione all’apertura verso l’altro, alla condivisione, alla fraternità; dall’altro, quella alla chiusura nel proprio io, all’autoreferenzialità. Ad esempio, ho trovato particolarmente incisivi i passaggi in cui si denuncia la tendenza all’autoreferenzialità della comunione ecclesiale e della teologia contemporanea. In relazione a quest’ultima, gli autori affondano la lama fino al cuore della questione: «Una tale sproporzione, fra l’enormità di una produzione di senso autoreferenziale e l’insignificanza della sua creatività culturale, pone persino un problema di moralità dell’investimento dei talenti affidati dal Signore alla generosità dei nostri investimenti. E il pensiero non è certo l’ultimo di questi talenti».
Come docente di filosofia politica, leggendo queste pagine mi sono detto che sarebbe auspicabile una così chiara consapevolezza anche all’interno del mio ambito disciplinare, in cui troppo spesso all’aperta curiosità della ricerca filosofica si è sostituito un immorale autismo discorsivo, la cui aridità linguistica si coniuga con un’insignificanza che è culturale, sociale ed esistenziale. Ma non è su questo aspetto che intendo soffermarmi.
Vorrei provare a proporre qualche considerazione a partire da un bel passaggio del testo: «La fede non giustifica alcun privilegio dei fedeli, né impone alcuna estraneità degli altri, di fronte al comandamento universale del Creatore, sempre in vigore, che impegna tutti. Ossia, la consegna all’uomo e alla donna — anche a quelli che vivono ora! — del compito di dare bellezza al mondo e speranza alla storia: anche nei passaggi più difficili».
L’autoreferenzialità dell’individuo moderno — in quanto inchioda quest’ultimo ad un “autismo affettivo” che lo imprigiona in se stesso — è la fonte del vuoto di senso che, come viene sottolineato nel testo, investe pervasivamente il nostro mondo.
Il compito di dare bellezza al mondo coincide con quello di dargli un senso e una speranza. Una vita precipitata nell’insensatezza è di per sé priva di speranza, come ci dimostrano, tra l’altro, le esperienze cliniche del trattamento della depressione.
E lo è perché è chiusa in se stessa. La speranza, infatti, è un’esperienza della temporalità connotata dall’apertura del proprio orizzonte esistenziale, e non dal mero fatto di avere del tempo davanti a sé. Correlare senso e bellezza non equivale a cedere a una visione estetizzante della vita, ma significa riconoscere la natura estatica dell’esperienza del senso. È significativo come il vuoto di senso proprio della depressione sia correlato alla chiusura nel proprio io, che finisce per diventare una prigione. L’isolamento autistico fa precipitare nell’insensatezza perché la percezione del senso è un’esperienza di apertura, di rottura degli argini del proprio io e di abbandono nella condivisione. Una condivisione non di qualcosa, ma di sé.
Il rischio che corriamo è che venga meno non solo un’etica della condivisione, correlata al principio della responsabilità, ma anche, e forse prima ancora, un’estetica della condivisione, connessa all’esperienza del senso. Quest’ultima, infatti, mi pare che coincida innanzitutto con la percezione della bellezza della vita, ossia del fatto che la vita merita di essere vissuta, che è buona, nonostante il dolore e la morte. Il legame tra il bello e il buono è intrinseco allo stesso termine bellus, che è un diminutivo di bonus. Inoltre, l’esperienza del senso, che si dà nella condivisione, ha una natura estetica, dal momento che coincide con la percezione (aisthesis) della bellezza della vita, e non semplicemente con una certa visione intellettuale che abbiamo di quest’ultima.
Ciò che è bello risalta rispetto al resto, catturando la nostra attenzione, ci meraviglia e ci attrae, ci seduce, spingendoci ad uscire fuori di noi. La bellezza non è solo proporzione, ma anche rapimento; non è solo trionfo delle forme, ma anche fonte dell’oblio di sé come individui. L’esperienza amorosa ce lo insegna. Credo che la percezione del senso sia correlata a questa dimensione estatica della bellezza, al desiderio di uscire dai confini del proprio sé. Ecco perché il senso si dà nelle esperienze di condivisione in cui, rompendo gli argini della nostra identità, ci abbandoniamo al fondo comune che ci unisce all’altro. Quella del senso è un’esperienza mistica, che però non è riducibile al misticismo religioso propriamente detto, dal momento che è più ampia e ordinaria. Priva del suo cuore mistico l’esistenza non può che cadere nel vuoto dell’insensatezza.
Nell’appello si richiama la necessità di nuove «politiche dello spirito». Mi sembra un punto importante e spesso trascurato, anche quando si guarda criticamente alle ideologie che minano alla radice il principio di fraternità. Penso, ad esempio, al neoliberismo e al populismo: oltre ad essere paradigmi socioeconomici e politici, sono anche politiche dello spirito, in quanto mirano a configurare il rapporto che le persone instaurano con se stesse in modo da barricarle nel fortino della propria identità. Le drammatiche conseguenze di questa chiusura sono evidenti non solo nella frustrazione di un’esistenza deprivata di senso, ma anche nella spietatezza, ossia nella mancanza di pietà, con cui ci si rapporta agli ultimi, come risulta evidente, ad esempio, dalla crescita progressiva di politiche dell’immigrazione che negano, oltre all’accoglienza, persino il soccorso.
Nuove politiche dello spirito di segno opposto sono più urgenti che mai, per rimanere umani e per salvaguardare quelle dimensioni della nostra esistenza che le danno senso. Una causa comune che non può che unire credenti e non credenti.
Vincenzo Sorrentino
* Professore di Filosofia politica presso
l’Università di Perugia
Il Cantico
ISSN 1974-2339
Pubblicazione riservata