L’animatore della comunicazione e della cultura un nuovo ministero della comunità
II Parte – Rossano Calabro, 22/9/2011

Educare alla comunicazioneCome ha scritto Benedetto XVI nella CV, viviamo in un’epoca di ipersviluppo tecnologico, ma anche di sottosviluppo morale (29, 73). Da una parte, infatti, assistiamo a un’accelerazione senza precedenti dello sviluppo della tecnica, che dilata in modo solo fino a qualche anno fa impensabile, quasi magico, le nostre possibilità di comunicazione.
Innanzitutto va ormai acquisito il fatto che i media non sono strumenti in qualche modo estrinseci e neutri rispetto alle nostre attività, ma fanno parte dell’ambiente in cui ci muoviamo e abbiamo relazioni, e che quindi la comunicazione non può essere considerata un settore a sé stante, quasi un optional di cui solo pochi si devono occupare. In secondo luogo, se i media sono ambienti, tanto più invisibili e influenti quanto meno ne siamo consapevoli (e normalmente non lo siamo, perché, come scrive McLuhan, l’ambiente satura l’intero campo dell’attenzione, come l’acqua per il pesce), l’unico modo a nostra disposizione per non venirne plasmati è “disimmergerci”, osservarli da una prospettiva diversa, a partire da un “controambiente”, per non tracciare confini artificiali tra campi del sapere, che costituiscono al contrario una feconda unità; e, soprattutto, integralità dell’essere umano.

L’animatore della comunicazione e della cultura non è uno specialista. Lo specialista, scriveva McLuhan, “è colui che non fa mai piccoli sbagli mentre avanza verso un grande errore”. Il grande errore è quello di separare ciò che è unito, e di concentrarsi su un frammento senza vedere né gli altri, né il legame che li unisce in un tutto.
Secondo la definizione che McLuhan dà del cristiano, l’animatore deve essere “l’uomo dalla consapevolezza integrale“, capace di entrare in risonanza col mondo e con le persone, perché in lui risuona la parola che è vita. Non è quindi nemmeno un intellettuale, dato che il suo sapere è legato all’esperienza, e alla capacità di entrare in sintonia con le persone e le situazioni. A differenza degli esperti, non ha un approccio settoriale e interno alle tecnologie, bensì un approccio “cattolico” nel senso letterale, ovvero relativo all’intero. La cultura cattolica è cultura dell’intero, dell’unione dei diversi, del dialogo, del rapporto finito e infinito, ma soprattutto di una concezione integrale della persona e della vita.

Grazie a questo approccio, l’animatore è portatore di uno sguardo diverso sui media. Non è un “tecnofan” ma nemmeno un “tecnoingenuo”. È consapevole del fatto che i media non sono strumenti da usare ma elementi del nostro ambiente che ci plasmano se non li conosciamo; che non sono di per sé ambiti di libertà, ma dispositivi che disabilitano mentre abilitano e che dispongono di noi e ci dispongono, mentre noi disponiamo di loro.
L’animatore contribuisce così a costruire un “controambiente” che aiuta a rimanere vigili (difficilmente, soprattutto oggi, si può farlo da soli) e a trasformare così i media da qualcosa di dato per scontato, e quindi potente, in un’occasione per una rigenerata capacità relazionale e una nuova intelligenza del mondo e persino della fede. Vigilare è la condizione della libertà, mentre lasciarsi portare dalla corrente no.

L’animatore è dunque attivatore di riflessività e di relazione, lievito che tiene in movimento e che sa riconoscere e valorizzare le sinergie e i possibili contributi, specie dei giovani. Sa offrire loro una prospettiva diversa per mettere in gioco le loro competenze di nativi, e sa avvicinare anche quelli che si sentono lontani. È promotore di una convivialità e di una quotidianità che consolidano il tessuto relazionale e danno spessore alla comunicazione, mentre offrono strumenti per capire il mondo.

Insomma, l’animatore è capace di un’opzione decisa per l’unità degli aspetti dell’esistenza, per il legame nella discontinuità e sa comprendere la distinzione profonda tra i due modi possibili di rapporto coi media. Il primo, in sintonia con la cultura contemporanea, consiste nel negare le differenze (per esempio tra reale e virtuale, o tra fatti e fiction): il confine può essere continuamente attraversato perché si tratta di due mondi indistinguibili, o che comunque non importa distinguere; due mondi equivalenti, dove non c’è differenza intrinseca tra apparenza e realtà e dove il punto di riferimento siamo esclusivamente noi.

Il secondo è quello che sembra prevalere tra i giovani: i confini tra i due mondi, territori contigui dell’esperienza quotidiana, vengono attraversati continuamente, ma con consapevolezza della loro differenza qualitativa profonda e del loro rapporto gerarchico, che attribuisce una indubbia primazia all’incontro faccia a faccia nelle situazioni concrete. È rispetto a questo incontro, illuminato da una parola che ci indica il fondamento e la meta dello stare insieme, che l’animatore si rende “facilitatore”.

Il poeta inglese Yeats scriveva: “viviamo in un’epoca in cui ai buoni mancano tutti i convincimenti e i cattivi sono ricolmi di una appassionata intensità”. Riportando queste parole autorevoli, McLuhan però commentava. “Io non sono sicuro che le cose stiano veramente così” (La luce e il mezzo, 167). Sta a noi dimostrare che anche su questa come su tante altre intuizioni, in fondo aveva ragione.

(tratto dalla relazione di don Domenico Pompili, Vicesegretario Cei e Direttore Uff. Naz. Comunicazioni Sociali, Rossano Calabro 22/9/2011)