Domenica 15 dicembre 2013 si è svolto presso il Monastero di Sezano il ritiro in preparazione al Natale della Fraternità di Verona, al quale hanno partecipato anche le Fraternità di Brescia e Bologna. Ecco alcune risonanze delle meditazioni guida di P. Lorenzo Di Giuseppe ofm che hanno animato l’incontro.
UN DIO CHE SI FA POVERO PER NOI
S. Francesco ha portato nella riflessione su Gesù Cristo un elemento importante: ha allargato il discorso all’incarnazione, alla nascita di Gesù, mettendo l’umanità di Gesù davanti ai cristiani, allargando così la comprensione del mistero stesso della venuta di Gesù sulla terra.
Si realizza quindi la convinzione che Gesù si sia incarnato non solo per rimettere i peccati ma anche per manifestare all’umanità il progetto di Dio sull’uomo.
“Non importa, infatti solo sapere che Dio si è fatto uomo”, ma anche “sapere che tipo di uomo si è fatto”. Francesco “si situa nella linea di san Paolo”, in quanto “più che sulla realtà ontologica dell’umanità di Cristo, egli insiste, fino alla commozione, sull’umiltà e la povertà di essa”.
Secondo le fonti, “l’umiltà dell’incarnazione e la carità della passione” avevano il potere di commuovere fino alle lacrime il Santo. Addirittura, una volta, un frate gli ricordò durante il pranzo la povertà della Vergine e l’indigenza del Suo Figlio; Francesco “subito si alzò da mensa, scoppiò in singhiozzi di dolore, e col volto bagnato di lacrime mangiò il resto del pane sulla nuda terra”. Il Santo ha ridato dunque “‘carne e sangue’ ai misteri del cristianesimo spesso ‘disincarnati’ e ridotti a concetti e sillogismi”.
E la sua distinzione “tra il fatto dell’incarnazione e il modo di essa” “getta una luce singolare sul problema attuale della povertà e dell’atteggiamento dei cristiani verso di essa”.
Nella sua incarnazione, Cristo “ha assunto, a un titolo tutto particolare, il povero, l’umile, il sofferente, al punto da identificarsi con essi”.
Nel povero si ha una presenza “reale” di Cristo, non come nell’Eucarestia certo, ma come Gesù ha detto: “Quella certa persona lacera, bisognosa di un po’ di pane, quell’anziano che moriva intirizzito dal freddo sul marciapiede, ero io!”. Pertanto,“non accoglie pienamente Cristo chi non è disposto ad accogliere il povero con cui egli si è identificato”. Il povero è un “vicario” passivo di Cristo, nel senso che “quello che si fa al povero è come se lo si facesse a Cristo”.
Per questo Giovanni XXIII nel Concilio ha coniato l’espressione “Chiesa dei poveri”, per indicare che “tutti i poveri del mondo, siano essi battezzati o meno, le appartengono”. Ne deriva che il Papa sia il “padre dei poveri”, ed è “una gioia” “vedere quanto questo ruolo è stato preso a cuore dagli ultimi Sommi Pontefici.
Tuttavia, “noi tendiamo a mettere, tra noi e i poveri, dei doppi vetri”. Infatti, “vediamo i poveri muoversi, agitarsi, urlare dietro lo schermo televisivo, sulle pagine dei giornali e delle riviste missionarie, ma il loro grido ci giunge come da molto lontano. Non ci penetra al cuore”. La parola ‘poveri’, ‘extracomunitari’, “provoca, nei paesi ricchi, quello che provocava nei romani antichi il grido ‘i barbari’: lo sconcerto, il panico”.
“Piangiamo e protestiamo per i bambini a cui si impedisce di nascere – ma non dovremmo fare altrettanto per i milioni di bambini nati e fatti morire per fame, malattie, costretti a fare la guerra e uccidersi tra loro per interessi a cui non siamo estranei noi dei paesi ricchi?”. Dovremmo protestare non solo “per gli anziani, i malati, i malformati aiutati a morire con l’eutanasia”, ma anche “per gli anziani che muoiono assiderati di freddo o abbandonati soli al loro destino.
Il primo passo è dunque “superare l’indifferenza e l’insensibilità”, “accorgerci” dei poveri. Sono tre le parole chiave in tal senso: “Amarli, soccorrerli, evangelizzarli”. Amarli nel senso di “rispettarli e riconoscere la loro dignità”, sulla scia di santi come Francesco, Vincenzo de’ Paoli e Madre Teresa di Calcutta, il cui amore per i poveri “è stato la via della loro santità”. I poveri, inoltre “non meritano soltanto la nostra commiserazione”, ma anche “la nostra ammirazione”, perché “essi sono i veri campioni dell’umanità”.
Oltre al dovere di amare i poveri, segue quello di soccorrerli. “A che serve impietosirsi davanti a un fratello o una sorella privi del vestito e del cibo, dicendo loro: Poveretto, come soffri! Vai, riscàldati, sàziati!, se tu non gli dai nulla di quanto ha bisogno per riscaldarsi e nutrirsi?”, riecheggiando le parole di San Giacomo.
“La compassione, come la fede, senza le opere è morta”, “Gesù nel giudizio non dirà: Ero nudo e mi avete compatito; ma Ero nudo e mi avete vestito”. Pertanto, “non bisogna prendersela con Dio davanti alla miseria del mondo, ma con noi stessi”.
Oggi, poi, non basta più “la semplice elemosina”: si possano fare tante cose “per soccorrere” i poveri e “promuoverne l’elevazione”. Tra queste, evangelizzarli: “Non dobbiamo permettere che la nostra cattiva coscienza ci spinga a commettere l’enorme ingiustizia di privare della buona notizia coloro che ne sono i primi e più naturali destinatari”, “L’azione sociale deve accompagnare l’evangelizzazione, mai sostituirla”, e i poveri “hanno il sacrosanto diritto di udire il Vangelo integrale, non in edizione ridotta o polemica”.
In conclusione, per S. Francesco d’Assisi, il Natale “non era solo l’occasione per piangere sulla povertà di Cristo”, ma la festa “che aveva il potere di fare esplodere tutta la capacità di gioia che c’era nel suo cuore”. “A Natale egli faceva letteralmente pazzie; diventava come uno di quei bambini che stanno con gli occhi pieni di stupore davanti al presepio” – e “ogni volta che diceva Bambino di Betlemme o Gesú, passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole”.
In questo tempo terremo fisso lo sguardo su Gesù Cristo, “colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Eb 12,2): in lui trova compimento ogni travaglio ed anelito del cuore umano. La gioia dell’amore, la risposta al dramma della sofferenza e del dolore, la forza del perdono davanti all’offesa ricevuta e la vittoria della vita dinanzi al vuoto della morte, tutto trova compimento nel mistero della sua Incarnazione, del suo farsi uomo, del condividere con noi la debolezza umana per trasformarla con la potenza della sua Risurrezione.
Rita Montante
INCARNAZIONE: SPECCHIO DELLA VITA DI S. FRANCESCO
L’incarnazione diventa riferimento per la vita, diventa la via, lo specchio della vita di S. Francesco che volle vivere umile e povero. S. Francesco non voleva avere altre vie. Nella vita di S. Francesco è centrale questo voler imitare Gesù Cristo, questa vita cristiforme, l’imitazione fino a diventare la vita di Gesù Cristo: quando Francesco suggerisce la povertà, la vede nella vita di Gesù Cristo. Lo specchio che sta davanti a lui è il Vangelo, gli basta Gesù Cristo. S. Francesco non cerca la mediazione, ma l’incontro diretto. Quando si forma la fraternità, Francesco guarda alla vita di Gesù Cristo con gli apostoli: al centro rimane la Parola di Dio, poi bisogna seguire il modo di vivere di Gesù con gli apostoli.
Francesco aveva capito questo: la volontà di Dio era che lui annunciasse il Vangelo, quindi una comunità apostolica come quella formata da Gesù con gli Apostoli. L’incarnazione non è solo riferita a Gesù Cristo ma anche a noi; Gesù propone a noi la sua umanità che sta davanti a noi come uno specchio. Noi non seguiamo filosofie o altro, abbiamo questo discorso del Vangelo, che è guardare a Gesù Cristo.
Papa Francesco ha avuto una eco particolare tra i cristiani e anche fuori da essi subito, agli inizi, per aver assunto il nome di Francesco. Questo perché la via indicata da S. Francesco è ancora attuale. Ma in che senso lo è ancora oggi? Perché siamo francescani? Papa Francesco fa il discorso dell’uscire da sé, che è la spoliazione. Ora in Gesù Cristo la spogliazione è l’Incarnazione: è uscito dalla sua divinità, pur rimanendo Figlio di Dio; era Dio, ma ha vissuto la sua esistenza nella spoliazione di questa sua prerogativa. Gesù esce da sé, si spoglia della sua divinità per venire verso di noi: S. Francesco intende così la povertà di Gesù: per venire verso di noi, per farsi nostro fratello. Aveva bisogno di convincerci che il Padre ci amava, allora è uscito da se stesso. Questo è il metodo anche per noi; il Signore ci chiama ad essere per gli altri non solo discepoli ma anche missionari. Siamo stati chiamati nella Chiesa per annunciare agli altri l’amore di Dio; papa Francesco ci ripete ciò che ha fatto S. Francesco che andava, usciva verso gli altri. Verso chi? L’incontro con il lebbroso è sintomatico: le periferie, gli esclusi, quelli che nessuno cerca.
Andare verso queste situazioni di periferia, di scarto, è il compito di ogni cristiano, quindi anche nostro se vogliamo essere francescani nella verità, nella vita. Bisogna fare questo cammino, uscire da umili e poveri: S. Francesco vede nell’Incarnazione l’umiltà e la povertà in cui si realizza la nascita di Gesù. Uscire da noi stessi, andare verso le periferie dell’esistenza in umiltà e povertà.
Un aspetto importante che ci viene presentato all’inizio della lettera apostolica Evangelii Gaudium di papa Francesco è la gioia del Vangelo. S. Francesco, dopo che aveva rinunciato ai beni nella piazza del vescovado, esclama: “Ecco, adesso posso dire che ho un Padre nei cieli” (FF 597). Quindi recuperare la libertà di figlio davanti a Dio; S. Francesco vive secondo la volontà di Dio. Se ne va verso Gubbio e lungo la strada canta, sente la gioia. È la gioia del Vangelo; è uscito da un tipo di vita e si è messo in un altro tipo di vita, è il Vangelo. I briganti lo buttano in mezzo alla neve e lui continua a cantare: “Sono l’araldo del gran Re” (FF 346).
È la gioia di chi è entrato in una vita animata dal Vangelo. Se non senti la gioia del Vangelo, con la quale riempi di senso la vita, come puoi annunciarlo? L’Incarnazione di Gesù che è venuto per diventare nostro fratello, per dare un senso alla nostra vita, per riempirla, per darle gioia, diventa la via anche per la nostra vita. Gli angeli a Betlemme annunciano la pace e la gioia.
Renato Dal Corso