#TG1Dialogo, sabato 20 marzo 2021, ha ripreso l’importanza del recente viaggio di Papa Francesco in Iraq ripercorrendo le tappe della prima volta apostolica di un Papa nella Terra del Tigri e dell’Eufrate, Paese dalla millenaria ricchezza religiosa e culturale: da Baghadad alla città sacra dell’islam sciita Najaf per l’incontro privato con l’ayatollah Al -Sistani, dalla Piana di Ur, Terra santa del patriarcaAbramo, memoria e culla delle fedi fino all’arrivo nelle macerie di Mosul e di Qaraqosh nella biblica piana diNinive, dove fu scritta parte della Bibbia. Tappe di un viaggio emblematico e profetico nella cerniera delMedioOriente, devastato dalle guerre, da tempo pensato per superare i mali e «le ombre di un mondo chiuso» e dare seguito all’enciclica Fratelli tutti. Tappe che hanno fatto capire certamente molto di ciò che oggi rappresenta questa visita nella culla dell’umanità e della ricchezza etnica e religiosa spazzata via da quattro guerre negli ultimi quattro decenni e dove le violenze settarie e jihadiste che hanno incendiato e spaccato l’Iraq dopo l’invasione Usa del 2003 hanno provocato più di un milione di profughi e lasciato senza un tetto più di due milioni di persone, per metà bambini.
«Le sue radici religiose e culturali sono millenarie: la Mesopotamia è culla di civiltà; Baghdad è stata nella storia una città di primaria importanza, che ha ospitato per secoli la biblioteca più ricca del mondo. E che cosa l’ha distrutta? La guerra.
Sempre la guerra è il mostro che, col mutare delle epoche, si trasforma e continua a divorare l’umanità ». E poi ancora ha affermato: «A Mosul mi sono fermato davanti alla chiesa distrutta, non avevo parole. Da non credere, da non credere la crudeltà umana nostra… Anche le altre chiese, anche una moschea distrutta. Una domanda che mi è venuta in mente nella Chiesa era questa: ma chi vende le armi a questi distruttori? Perché le armi non la fanno loro a casa… Ma chi vende le armi? Chi è il responsabile? Almeno chiederei a questi che vendono le armi la sincerità di dire: “Noi vendiamo le armi”. Non lo dicono».
«Il 2021 è un tempo da non perdere – aveva detto papa Francesco rivolgendosi al corpo diplomatico all’inizio di questo anno – e non sarà sprecato nella misura in cui sapremo collaborare», aveva aggiunto, affermando poi che «la fraternità e la speranza sono medicine di cui oggi il mondo ha bisogno, al pari dei vaccini». Si è detto molto del valore di questa visita per i cristiani, che a fronte di violenze e abusi scappano da quella che per millenni è stata casa loro, ma anche per tutti gli iracheni, esausti dopo decenni senza pace, vessati dalle interferenze esterne e da una politica che può essere tale solo andando oltre i settarismi in un contesto a cui si aggiunge la pandemia di coronavirus che ha messo in ginocchio un’economia e società già provate. In questo senso la venuta del Papa non è stata solo un auspicio ma già una vittoria della pace, che guarda oltre e lontano. Perché la prospettiva di pace che comporta e implica è incompatibile con identitarismi o progetti settari e miliziani. E perché dalle ombre di questi tempi difficili possano aprirsi altre prospettive, considerato anche il contesto geopolitico: la pressione delle tensioni regionali, come quelle tra Iran e Arabia Saudita e quelle globali a partire dagli Stati Uniti, affinché da questa regione chiave sia riscoperta la prospettiva di un destino comune che possa stemperare le contrapposizioni per costruire la fiducia, la pace e la stabilità in un tempo in cui il dialogo interreligioso costituisce un’opportunità non solo per i leader religiosi e per i fedeli delle varie confessioni, ma può sostenere l’opera fattiva dei leader politici nella loro responsabilità universale di edificare il bene comune.
Dall’intervista a Stefania Falasca, inviata di Avvenire
Il Cantico
ISSN 1974-2339
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