adamo e evaNonostante la sua evidente matrice latina, si è adottato il sostantivo e il verbo inglese focus per definire una dominante nell’attenzione pubblica. In questi ultimi anni sono stati soprattutto due i centri d’interesse sui quali si è appunto focalizzato l’impegno di analisi e di dibattito della società e della stessa cultura, la bioetica e l’economia. Di conseguenza la stessa religione – che è pur sempre innestata nel vivere comune e che particolarmente nel cristianesimo è “incarnata”, e quindi insediata anche nella piazza e non solo nell’area sacrale del tempio – si è dovuta confrontare con queste due componenti capitali dell’esistenza umana.
Per quanto riguarda il primo tema, spesso il focus si è trasformato in un vero e proprio fuoco incandescente, sia pure metaforico: basti solo evocare la questione della maternità surrogata.
In realtà, il termine “bioetica” fu coniato nel 1970 daVan R. Potter in un articolo intitolato Bioethics: The Science of Survival, apparso sulla rivista «Perspectives in Biology and Medicine», col significato appunto di «scienza della sopravvivenza» e col programma di promuovere la qualità della vita. L’attuale specificazione del vocabolo è avvenuta successivamente ed è stato Warren T. Reich nel 1978 nell’introduzione ai quattro volumi dell’Encyclopedia of Bioethics, pubblicata dalla Free Press di NewYork, a offrire la definizione più comune, generale e generica: «Studio sistematico della condotta umana nell’area della scienza della vita e della salute, esaminato alla luce dei valori e dei principi morali».
È facile intuire la fluidità di questa classificazione per cui si sono aggiunti al termine “bioetica” gli aggettivi e le determinazioni più varie (clinica, ambientale, globale, geriatrica, animale, laica, biotecnologie, bioterrorismo etc.).
Al riguardo basterebbe solo scorrere le voci dell’Enciclopedia di bioetica e sessuologia, curata da Giovanni Russo nel 2004 dagli editori Elledici e Velar, per comprendere quanto vasto sia l’ombrello di copertura semantica del vocabolo.
Appare ora una Breve introduzione alla bioetica molto chiara e circoscritta, elaborata da uno dei maggiori teologi moralisti francesi, Xavier Thévenot. Egli si attesta sostanzialmente su entrambi gli estremi dell’arco della vita umana privilegiando quindi l’incipit e l’explicit, ossia le questioni relative alla tappa iniziale e a quella terminale. Riconosciute senza riserve le ricadute positive e spesso esaltanti del progresso biomedico, è altrettanto necessario segnalare le interrogazioni che esso pone quando assume caratteri invasivi e manipolativi sempre più radicali.
Questo saggio è opera di un teologo cattolico e, quindi, procede entro un orizzonte valoriale dotato di una sua identità, capace però – pur nella distinzione delle epistemologie e dei metodi – di interloquire con lo statuto autonomo delle discipline scientifiche.
E quando parliamo di scienze umane, intendiamo anche la filosofia: pensiamo al rilievo che ha, ad esempio, l’“etica della responsabilità” di matrice kantiana per cui la persona umana deve essere sempre considerata come fine. Si esclude, quindi, un mero funzionalismo oppure la riduzione individualistica della persona ignorandone la dimensione relazionale. Contro un esclusivismo tecnologico asettico Thévenot propone, perciò, un contesto antropologico previo nella cui cornice collocare la batteria degli interrogativi costanti e comuni: l’embrione è persona e quindi deve essere rispettato come tale? Un essere umano in coma è ancora persona e quindi deve essere così considerato? Che cosa significa procreare? Quale limite ha la terapia del dolore? E così via.
In questo percorso, che è scandito sostanzialmente dalla trilogia metodologica del vedere-giudicare-agire, emergono anche le questioni specifiche connesse alla procreazione assistita omologa ed eterologa, con un capitolo riservato esplicitamente alla legislazione italiana, così come si affronta il delicato discernimento etico attorno alla malattia terminale e al fine vita, con un rimando critico anche alla provocazione del teologo Hans Küng sul “Morire felici? Lasciare la vita senza paura” (Rizzoli 2015).
Il saggio di Thévenot è, dunque, una guida generale per impedire semplificazioni che escludano il livello antropologicofilosofico- teologico o, al contrario, esorcizzino quello scientifico e tecnico. Si illustra, così, la complessità della bioetica nella sua struttura autentica e si marca lo sguardo da vertigine che spesso si sperimenta penetrando al suo interno.
C’è, però, anche l’altro focus, apparentemente più estrinseco a cui sopra accennavamo, cioè quello economico. In realtà anch’esso è capace di incidere pesantemente sull’esistenza personale e sociale.
Proprio per questo si deve anche in questo orizzonte introdurre una visione contestuale: basti solo pensare ai drammi creati dalla “finanziarizzazione” dell’economia, dalla disoccupazione, dalla degenerazione del mercato e dalla crisi ecologica. È, perciò, da sottolineare l’importanza che ha il trattato di Teologia morale economica preparato da Gianni Manzone, docente della Pontificia Università Lateranense di Roma. La sua è un’analisi sistematica di questa realtà capitale nella storia, che ha visto spesso un contrappunto e talora una dialettica con la dottrina sociale della Chiesa.
Dicevamo della necessità, anche in questo caso, del contesto antropologico generale: è ciò che viene ampiamente sviluppato nel “momento fondativo” entro cui è collocata la fenomenologia dell’economia: dal lavoro all’impresa, dal mercato al denaro, dalla politica alla questione ambientale e alle biotecnologie. Come si può intuire, il tracciato è destinato a registrare l’articolazione complessa di quella che, come dice il termine stesso, è il nómos, la legge, dell’oikos, ossia della casa del singolo ma anche dell’intera umanità.
In questa luce la riflessione teologica getta la sua luce su una rete fitta di problemi e di soggetti. Solo per esemplificare, pensiamo alla vasta regione tematica del “lavoro” che comprende non solo la sua necessità e dignità, il senso, il legame col bene comune, ma anche i corollari strutturali della flessibilità, del reddito, del sindacato, dello sciopero, del nesso con la famiglia, del volontariato, delle professioni e così via.
C’è, dunque, una dimensione morale dell’economia che deve sempre tener conto di quanto l’indiano Amartya Sen, Nobel 1998, osservava nel suo scritto Etica ed economia (Laterza 2003): «ll distacco dell’economia dall’etica è un impoverimento dell’economia, il cui alveo originario dovrebbe essere la filosofia morale, terreno nel quale molti economisti temono di inoltrarsi». Condotto con la guida specifica dell’etica cristiana, il testo di Manzone diventa allora uno strumento destinato non solo ai teologi ma adatto anche a economisti e a operatori sociali che comprendono i rischi di una cultura nella quale domina il primato dello strumento sulla visione d’insieme.
Giustamente il filosofo Paul Ricoeur segnalava che «viviamo in un’epoca in cui alla bulimia dei mezzi corrisponde l’atrofia dei fini». È un rischio che medicina e finanza stanno correndo e che la bioetica e la morale economica devono inibire ed evitare.

Gianfranco Ravasi,
da “Il Cortile dei Gentili” – 12 giugno 2016