Una passione infinita verso l’Eterno

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Il primo biografo di S. Francesco, Tommaso da Celano, di lui dice: “Non era tanto un uomo che prega, quanto piuttosto egli stesso tutto trasformato in preghiera vivente” (FF 682).
Egli viveva la preghiera con una tale intensità che coloro che si erano trovati ad assistere ad un suo colloquio con il Signore, si stupivano e arretravano per il timore e il tremore propri di chi si trova dinanzi al mistero del sacro. Ricordiamo l’episodio narrato nei Fioretti in cui frate Leone sul monte La Verna una notte, contravvenendo al comando di S.Francesco di non cercarlo quando si allontanava da solo nel bosco, andò sulle sue tracce finché lo vide alla luce della luna e lo sentì invocare il Signore levando al cielo le mani e il volto per chiedere “in fervore di spirito…:
«Chi se’ tu, o dolcissimo Iddio mio? Che sono io, vilissimo vermine e disutile servo tuo?»” (FF 1915). E il Signore gli rispose rivelandogli quale strada avrebbe dovuto percorrere nella vita, insieme ai suoi frati.
Nei santi l’esperienza del sacro porta a una tensione fra l’ardore suscitato dall’eccedenza di essere, che è propria dell’Altissimo, e lo sgomento nel trovarsi dinanzi a Lui con la propria pochezza e debolezza.
Il duplice interrogativo posto da S. Francesco agli inizi della sua conversione – Chi se’ tu?… Che sono io? – pone la scoperta di sé come conseguente alla scoperta del Tu ed esprime lo stupore e l’ineffabile ammirazione di S. Francesco nel trovarsi di fronte a un Dio che ha voluto innalzare a sé la sua creatura in un rapporto filiale, rendendola partecipe della vita divina e capace di divenire una passione infinita verso l’Eterno. Il mistero di questo innalzamento viene espresso nella preghiera a tal punto che si può dire, alla luce dell’esperienza di S. Francesco, che un uomo che non prega non sa chi egli sia.
Chi prega si impegna a non mettere la propria soggettività tra parentesi, proiettandosi nell’esteriorità che riduce tutto a oggetto, anche se stessi. Chi prega accresce la sua esperienza di vita interiore che è comunicazione di ricchezza, di pienezza di un esistere che si fa trasparenza dell’esistere di Cristo.
La preghiera è nutrimento dell’interiorità e, per questo, prevede la coltivazione del silenzio che aiuta ad uscire dalla banalizzazione dei rapporti e dal vivere una religione comparativa che faccia dipendere il proprio valorizzare dagli altri. Chi segue un’etica o una religione comparativa non cresce nella sua interiorità, ma rimane nell’esteriorità, perché non affronta il rischio delle scelte quotidiane, del farsi dono di una soggettività rinnovata sul modello offerto da Cristo.
La preghiera è innanzitutto ascolto del mistero che ci unisce a Dio. In S. Francesco essa era talmente intensa che, mentre pregava, non voleva mostrarsi agli altri, sapendo che non avrebbero potuto capirlo.
Noi pensiamo che la preghiera sia il rifugio dei deboli, una risposta alle loro tribolazioni. Per questo preghiamo poco. Invece la preghiera è dei forti che superano il loro limite dialogando con Dio e lasciandosi trasformare da Lui, mentre la nostra preghiera è tutta concentrata sul nostro io e non esprime quella che dovrebbe essere la nostra passione infinita verso l’eterno.
La preghiera ha una dimensione comunitaria e una personale. Nei vari periodi storici si è data maggiore importanza ora all’una ora all’altra, ma vanno recuperate entrambe. Occorre non rinchiudersi in un intimismo sterile ed esclusivista, ma anche far sì che la socialità non prevalga a scapito dell’interiorizzazione della preghiera che nel Santo di Assisi era fondamentale, a imitazione di Cristo.
A questo proposito nelle Fonti è scritto: “Cercava sempre un luogo appartato, dove potersi unire non solo con lo spirito, ma con le singole membra, al suo Dio. E se all’improvviso si sentiva visitato dal Signore, per non rimanere senza cella, se ne faceva una piccola col mantello. E se a volte era privo di questo, ricopriva il volto con la manica, per non svelare la manna nascosta” (FF 681).
La vita di S. Francesco ci illumina sull’importanza di vivere la preghiera con intensità, essendo soggetti di passione infinita che nessuna cosa temporale può saziare. Nella teologia francescana il primato spetta all’infinito visto nella sua positività e non nella negatività, come in Aristotele (in-finito=non finito). Per S. Francesco l’infinito che è in noi, va coltivato per poter divenire sempre più “immagine e similitudine” di Cristo. Ciò comporta fatica, lavoro e responsabilità. La preghiera non è né sentimentalismo, né spontaneismo.
La preghiera è l’azione più seria e difficile che possa compiere l’uomo, poiché stare davanti a Dio mette a dura prova le forze umane.   un lavoro continuo che deve fare diventare il nostro corpo una cella in cui l’anima, come l’eremita, viva in ginocchio di fronte al Cristo per meditare su di Lui (cf FF 1636 e 1757). Questa disposizione d’anima e di corpo dava l’impronta ad ogni preghiera del Santo, sia a quella comunitaria sia a quella personale che si integravano a vicenda in un’unità armonica e vitale.

Lucia Baldo