L’innocenza primitiva
S. Francesco e il lebbrosoNel linguaggio comune la parola “pietà” richiama l’idea del “far pena” o “provare pena” in senso spregiativo.
Se invece risaliamo all’origine di questo termine possiamo coglierne un significato pregnante di natura religiosa, poiché “pietas” deriva da “pius”.
Nell’Eneide questo aggettivo qualifica il pio Enea fondatore della civiltà italiana e uomo misericordioso che ha una disposizione dell’animo a sentire devozione verso gli dei, la famiglia, la patria, la tradizione…, e a operare di conseguenza con rispetto reverenziale per ciò che è considerato sacro.
In Cristo la pietà raggiunge una pienezza che S. Bonaventura coglie in S. Francesco quando dice che tra i sentimenti che avevano riempito il cuore di S. Francesco, la “vera pietà” (FF 1134) dominava “totalmente la personalità di quell’uomo di Dio.
La pietà lo elevava a Dio per mezzo della devozione, lo trasformava in Cristo per mezzo della compassione, lo faceva ripiegare verso il prossimo per mezzo della condiscendenza e, riconciliandolo con tutte le creature, lo riportava allo stato di innocenza primitiva”.
Anche l’enciclica “Laudato si’”, parlando dello stato di “innocenza originaria” (LS 66) di S. Francesco, fa pensare all’innocenza di Adamo che, prima del peccato, viveva in armonia con tutte le creature nel paradiso terrestre.
Come il peccato provoca la rottura del nostro rapporto con Dio e con le creature, così la “guarigione di tale rottura” (LS 66), ci pone in comunione con Dio e con le sue creature. In questa comunione il nostro sguardo sul mondo si trasforma nello sguardo di Dio che contempla affettuosamente lo splendore della sua creazione e ci permette di leggere il “libro stupendo” (LS 85) della natura, “le cui lettere sono la moltitudine di creature presenti nell’universo”, che rimandano al Creatore e, quindi, non vanno idolatrate. La natura è il primo libro scritto da Dio per comunicare il suo amore all’uomo e per ricevere dall’uomo una risposta d’amore. “Così come succede quando ci innamoriamo di una persona, ogni volta che Francesco guardava il sole, la luna, gli animali più piccoli, la sua reazione era cantare, coinvolgendo nella sua lode tutte le altre creature. Egli entrava in comunicazione con tutto il creato, e predicava persino ai fiori e «li invitava a lodare e amare Iddio, come esseri dotati di ragione » (FF 460). La sua reazione era molto più che un apprezzamento intellettuale o un calcolo economico, perché per lui qualsiasi creatura era una sorella, unita a lui con vincoli di affetto. Per questo si sentiva chiamato a prendersi cura di tutto ciò che esiste. Il suo discepolo S. Bonaventura narrava che lui, «considerando che tutte le cose hanno un’origine comune, si sentiva ricolmo di pietà ancora maggiore e chiamava le creature, per quanto piccole, con il nome di fratello o sorella» (FF 1145)” (LS 11).

Espressioni della comunione con Cristo
La Legenda Maior di S. Bonaventura racconta numerosi episodi che danno risalto a quell’“eccesso” di pietà di cuore che aveva reso S. Francesco misericordioso fratello di tutte le creature. Tali racconti possono sembrare edulcorati e adatti solo a sollecitare la curiosità dei bambini, ma acquistano un altro spessore se sono letti come espressione concreta della comunione di S. Francesco con Cristo. Attraverso le creature il Santo si incontrava con Cristo poiché “tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1,16).
“Abbracciava con maggiore effusione e dolcezza quelle che portano in sé una somiglianza naturale con la pietosa mansuetudine di Cristo… Spesso riscattava gli agnelli che venivano condotti al macello, in memoria di quell’Agnello mitissimo che voleva essere condotto alla morte per redimere i peccatori” (FF 1145).
Liberava gli animali catturati che diventavano suoi amici e non volevano allontanarsi da lui.
“Si chinava, con meravigliosa tenerezza e compassione, verso chiunque fosse afflitto da qualche sofferenza fisica e quando notava in qualcuno indigenza o necessità nella dolce pietà del cuore, la considerava come una sofferenza di Cristo stesso… Un giorno, un frate rispose piuttosto duramente ad un povero, che chiedeva l’elemosina in maniera importuna. Udendo ciò, il pietoso amatore dei poveri comandò al frate di prostrarsi nudo ai piedi del povero, di dichiararsi colpevole, di chiedergli in carità che pregasse per lui e lo perdonasse.
In tutti i poveri, egli, a sua volta povero e cristianissimo, vedeva l’immagine di Cristo. Perciò, quando li incontrava, dava loro generosamente tutto quanto avevano donato a lui, fosse pure il necessario per vivere; anzi era convinto che doveva restituirlo a loro, come se fosse loro proprietà” (FF 1142).

La salvaguardia della fraternità
S. Francesco desiderava che l’armonia pietosa fosse patrimonio comune a tutti i frati e quando la vedeva in pericolo lanciava maledizioni contro coloro che la distruggevano col loro comportamento.
Per esempio infliggeva castighi durissimi al detrattore che considerava “nemico radicale della pietà e della grazia, lo aveva in orrore come il morso del serpente. Affermava che Dio pietosissimo l’ha in abominio, perché il detrattore si pasce col sangue delle anime, dopo averle uccise con la spada della lingua” (FF 1141). Riteneva che il detrattore fosse “odioso a Dio” (FF 768) che non sopporta le divergenze tra i suoi figli.
Mosso da pietà verso i più piccoli, malediceva i frati che con una religiosità solo apparente li confondevano, mettendo così in grave pericolo la fraternità. A questo proposito S. Bonaventura descrive lo sconforto e la preoccupazione di S. Francesco “al punto di ritenere che ne sarebbe morto di dolore se la bontà divina non l’avesse sorretto con il suo conforto” (FF 1139).
La pietas fu sempre il movente di ogni sua azione, al punto che essa può essere considerata una caratteristica della spiritualità francescana.
Grande era la gioia di S. Francesco e invidiabili erano le sue benedizioni rivolte ai frati che con le parole o con le opere pietose trascinavano gli uomini all’amore verso Dio e le sue creature.
“Diceva che si sentiva riempire di profumi dolcissimi e, per così dire, cospargere di unguento prezioso, quando veniva a sapere che i suoi frati sparsi per il mondo, col profumo soave della loro santità, inducevano molti a tornare sulla retta via” (FF 1138).

Graziella Baldo