territoriLo chiamano Land Grabbing, letteralmente: accaparramento di terreno. Si tratta dell’acquisizione di terre fertili su vasta scala a prezzi bassi, nelle zone più disagiate del mondo, soprattutto in Africa e Asia, da destinare a uso prevalentemente agricolo per monocolture, ma anche per attività estrattive, da parte di governi e aziende di Paesi cosiddetti ricchi e tecnologicamente avanzati, che promettono in cambio investimenti e miglioramenti per l’economia locale, attraverso l’aumento di strutture e posti di lavoro.
In realtà è una forma di vero e proprio sciacallaggio, una nuova tipologia di colonialismo, più subdolo di quello dei secoli scorsi.
Lungi dall’essere la più adeguata soluzione al problema dell’approvvigionamento agroalimentare e energetico mondiale, il Land Grabbing rappresenta un grave rischio per le popolazioni autoctone, oltre che per l’ambiente e il clima. Il fenomeno nasce da un concetto di capitalismo basato unicamente sul profitto, consumista e privo di scrupoli eticoambientali, che favorisce i Paesi più ricchi e sviluppati, spesso privi di materie prime, appannaggio di Paesi meno preparati e soggetti a essere sfruttati da questo “nuovo colonialismo”.
Come motivazione di questa strategia, le multinazionali agroalimentari, le lobby internazionali e tutti coloro che supportano il Land Grabbing, sostengono che gli investimenti esteri in paesi come quelli dell’Africa centrale, e dell’Asia – soprattutto in riferimento ad alcune zone più povere della Cina e dell’India – portino sviluppo economico e occupazione.
In realtà non è così: secondo la Calabar Declaration, un accordo sottoscritto da varie organizzazioni che operano a supporto dei piccoli agricoltori, nei luoghi in cui le multinazionali agricole hanno implementato monoculture su larga scala, hanno provocato miseria e devastazione di territori. Le monocolture sono gestite da multinazionali che controllano le sementi nel mondo, come la Monsanto, e le tecniche di semina prevedono anche disboscamenti. La perdita delle biodiversità che ne consegue, oltre a eventuali deforestazioni, hanno come effetto quello di influire inevitabilmente anche sui cambiamenti climatici.
Per quello poi che riguarda le opportunità di sviluppo economico dei Paesi presi di mira, nella maggior parte dei casi gli investitori esteri prendono possesso di terre dove in precedenza vivevano migliaia di persone e lavoravano molti piccoli agricoltori, bloccando le loro attività. “Il Land Grabbing riduce l’occupazione locale e le persone che vengono assunte dalle multinazionali agricole si trovano in condizioni lavorative misere. Secondo la nostra opinione questo non è sviluppo, è antisviluppo”, afferma in proposito il Prof Henk Hobbelink, fondatore di Grain, l’associazione internazionale che da anni si occupa di questo fenomeno diffondendo ricerche e pubblicazioni, e supportando le attività dei piccoli coltivatori.
Le nuove aziende poi, perlopiù multinazionali, utilizzano sempre più macchinari e meno mano d’opera, sono più capital intensive. Non tutte le persone impiegate sono reclutate nei Paesi d’origine, spesso si tratta di lavoratori importati a buon mercato, o dirigenti con preparazioni tecniche specifiche inviati dalle aziende madri, perlopiù disinteressate a formare i lavoratori. Con questo sistema, i produttori locali vengono privati della possibilità di coltivare, mantenendo la biodiversità dei prodotti del territorio, così sempre meno sono gli abitanti del luogo in grado di produrre il cibo che necessita alla comunità.
Il prof Henk Hobbelink ha affermato in proposito, in una recente intervista rilasciata al settimanale Long term Economy: “Quando vengono impiegati elementi della popolazione locale, generalmente vengono compensati con stipendi molto bassi. Abbiamo osservato durante i nostri studi che per esempio in Etiopia e Sudan, le persone ricevono meno di un dollaro al giorno, che è la soglia stabilita dalla Banca Mondiale per definire la linea di povertà come parametro.
Abbiamo accertato che il Land Grabbing riduce l’occupazione locale anziché svilupparla, e le persone assunte dalle multinazionali si trovano in condizioni misere. Fattore ancora più grave: molte popolazioni locali stanno subendo un’espropriazione di terre perdendo il diritto di decidere sul proprio destino e su quello del loro ambiente”.
Tutto questo, viene controbattuto dalle multinazionali e dalle lobby dei governi interessati, adducendo in risposta la necessità di far fronte alla crisi alimentare, e alla crisi energetica mondiale. Quest’ultima in particolare comporta l’utilizzo di terreni per la produzione di biocarburante, terreni che vengono sottratti all’agricoltura destinata all’alimentazione, per produrre il biofuel.
Tra i principali Paesi “accaparratori” spiccano: gli Stati Uniti con circa settemilioni di ettari acquistati, la Malesia con tre milioni, Singapore con circa due milioni, gli Emirati Arabi sempre con due milioni, a seguire la Gran Bretagna, la Cina e la Russia. L’Italia non è nella lista, anche se non ad alti livelli, ultimamente si è “accaparrata” seicentomila ettari di terreni in Africa.
“Secondo la nostra opinione – ha affermato di recente l’ecologista di fama mondiale Vandana Shiva – l’industrializzazione globale dell’agricoltura sta solo imponendo un sistema basato su un maggiore sfruttamento di risorse e persone. Nel caso di biocarburante per esempio, lo sviluppo di piantagioni di palma da olio e di altri raccolti nei Paesi poveri, perché alimentino le auto dei Paesi più ricchi, non rappresenta la soluzione del problema energetico mondiale. La soluzione reale consiste nella riduzione del consumo di energia. Anche la crisi alimentare va risolta combattendo gli sprechi e la cattiva distribuzione”.
L’attuale preoccupante espansione di questo fenomeno evidenzia alcune problematiche: da un lato la fiducia dei governi nei mercati agricoli sta collassando, per cui per ridurre quanto più il rischio negli aumenti di prezzi dei prodotti alimentari, si stanno spingendo sempre più nel controllo di terre straniere in paesi meno sviluppati, per garantirsi un approvvigionamento diretto. Questo comporta spesso che per favorire le monocolture vengano compromesse le coltivazioni locali, vengano distrutte aree di foreste, e le comunità locali espropriate delle terre.
I contadini locali quando impiegati dalle multinazionali, sono costretti a lavorare in condizioni disumane e a comprare il cibo che una volta producevano in maniera autonoma. Altra questione: la terra fertile sta diventando sempre più scarsa, anche per le drammatiche mutazioni climatiche che favoriscono siccità e alluvioni devastanti. Il fenomeno, ancora volutamente sottovalutato, è grave e in espansione. Le conseguenze devastanti su popolazioni e territori sono oggetto di studio da parte di associazioni ambientaliste e organi preposti appositamente, come la FAO.
Urge una maggiore informazione, e una sensibilizzazione che renda consapevoli governi e popoli, ma soprattutto sarebbe auspicabile un’urgente regolamentazione internazionale, che opponga regole rigorose e restrittive perché genti e territori non siano considerati solo oggetti di sfruttamento.
“Non sto raccontando una semplice storia, sto parlando in nome delle lacrime che stiamo versando a causa dell’accaparramento delle nostre terre. Quello che mi porta a denunciare il Land Grabbing, è il fatto che alle persone che perdono le proprie terre, non viene dato alcun altro posto in cui continuare a vivere”: testimonianza di Ochen Solomon, studente ugandese, in uno degli ultimi convegni organizzati da Grain.

Alma Daddario