Il dialogo col Verbo
Oggi si dà molto risalto alla relazionalità che è fondamentale per la formazione della persona sempre in divenire. Tuttavia è molto riduttivo pensare ad un rapporto solo orizzontale tra persone umane, in quanto esse possono conoscere se stesse principalmente attraverso colui che ha dato loro l’essere: il Verbo di Dio.
Per comprendere meglio questa osservazione possiamo confrontarci col cristocentrismo bonaventuriano che si fonda su un principio formulato con precisione dallo stesso S. Bonaventura nella 1ª Collatio dell’“ Hexaemeron”: “Unico è il principio dell’essere e del conoscere”.
“Fondato su questo principio, ecco il ragionamento cristocentrico bonaventuriano: Cristo è il centro e il principio che dà il senso ad ogni ordine di esseri; Egli è pertanto anche il centro e il principio da cui si deve partire per conoscere il senso di ogni ordine di essere, come Dio lo vede, e come è nella sua ultima istanza” (V.C. Bigi, Studi sul pensiero di S. Bonaventura, Ed. Porziuncola, 1988, p. 334).
Cardine della vita cristiana personale e comunitaria è dunque il nostro rapporto con chi ci ha creato e ci ha voluto, dando un senso alla nostra vita. Per realizzarlo ci dobbiamo rivolgere a Lui che ci conosce.
La Quaresima è un tempo favorevole per scuoterci dal nostro torpore che vorrebbe farci ripiegare su noi stessi e lasciarci privi di rinnovamento. Senza quest’ultimo si rischia di sprofondare nel baratro del nonsenso e della menzogna che considera la nostra vita originata da noi stessi e in opposizione ad un dio che ci toglie la libertà (cfr. Messaggio Quaresima 2020, n.1).
Nel suo Messaggio il papa ci supplica, in nome di Cristo: “lasciatevi riconciliare con Dio” (2 Cor 5,20). E ci promette la gioia che scaturisce dall’ascolto e dall’accoglienza della Buona Notizia della morte e risurrezione di Gesù: il kerygma.
Respingendo l’illusione di poter costruire la nostra persona a partire da noi stessi, questo tempo è l’occasione per accettare o per intensificare una relazione piena di dialogo sincero e fecondo col Verbo di Dio.
In questo tempo di grazia Egli ci chiede di abbandonare la “presuntuosa illusione di essere noi i padroni dei tempi e dei modi della nostra conversione a Lui” (Msg. n.2) e di “corrispondere all’amore di Dio che sempre ci precede e ci sostiene”. Ascoltando “la voce del nostro Sposo e lasciandola risuonare in noi”, potremo rispondergli adeguandoci ad essa.
È questa l’esperienza di dialogo-preghiera che ci consente di convertirci e di conoscere quale sia la nostra vocazione, la nostra identità, il nostro essere, la nostra gioia.

La sapienza del povero
S. Francesco sente fortissima la responsabilità di favorire il dialogo del fedele con l’Altissimo, reso possibile dal medio-Cristo che incarnandosi nell’umiltà rivela il volto di Dio. Il Santo si sente “tenuto a servire a tutti e ad amministrare [da cui il titolo di ministro] a tutti le fragranti parole… del Signore nostro Gesù Cristo che è il Verbo e le parole dello Spirito Santo, che sono spirito e vita” (FF 180). Impedito, a causa della malattia, di comunicarle ai singoli, invia una Lettera a tutti i Fedeli in cui, prima di dare consigli per seguire la Parola, presenta il Verbo che si è incarnato nella povertà e che viene proposto come modello da seguire (cfr. FF 184).
La spiritualità francescana dàmolta importanza all’esemplarità, ai modelli concreti che sono molto più comunicativi degli insegnamenti teorici. Per ascoltare e seguire l’esempio del Verbo, che ha scelto la povertà, è fondamentale fare altrettanto vivendo da espropriati.
Uno dei tanti modi di vivere la povertà è quello che S. Francesco chiedeva ai neofiti acculturati che venivano accettati nell’Ordine con piacere. Però ad essi chiedeva di “riformare in meglio lo spirito” (FF 780) rinunciando al possesso della loro cultura vissuta come sola curiosità. Solo a queste condizioni sarebbero potuti essere interlocutori del Verbo e sarebbe stato possibile affidare ad essi il “ministero della Parola”. Solo a queste condizioni sarebbero stati in grado di essere testimoni della Parola e avrebbero potuto sollecitare gli altri al dialogo col Verbo.
Da parte sua S. Francesco era povero in quanto privo della cultura teologica del suo tempo, ma divenne ricco facendo risuonare in sé la voce dell’unico maestro (cfr. FF 61). “Leggeva di tanto in tanto i libri sacri e riteneva tenacemente impresso nella memoria quanto aveva una volta assimilato: giacché ruminava continuamente con affettuosa devozione ciò che aveva ascoltato con mente attenta” (FF 1187).
“Aveva in sé il loro autore” (FF 1189) che, servendosi di lui, parlava al mondo. Le sue parole erano pronunciate in comunione col Cristo per cui S. Bonaventura e il Celano affermano che la sua teologia, sorretta dalla contemplazione, vola alta come aquila (cfr. FF 690.1189).
Vivendo la povertà in modo estremamente radicale era riuscito a non frapporre nulla tra sé e Dio.
“La dedizione instancabile alla preghiera, insieme con l’esercizio ininterrotto delle virtù, aveva fatto pervenire l’uomo di Dio a così grande chiarezza di spirito che, pur non avendo acquisito la competenza nelle sacre Scritture mediante lo studio e l’erudizione umana, tuttavia, irradiato dagli splendori della luce eterna, scrutava le profondità delle Scritture con intelletto limpido e acuto” (FF 1187).
Era perfettamente consapevole della sacralità delle sue parole. Lo si avverte nella conclusione della Regola: “A tutti i miei frati chierici e laici, comando fermamente per obbedienza che non aggiungano spiegazioni alla Regola e a queste parole dicendo: così si devono intendere; ma come il Signore mi ha dato di dire e di scrivere la Regola e queste parole con semplicità e purezza, così semplicemente e senza commento dovete comprenderle e santamente osservarle sino alla fine” (FF 130).

Graziella Baldo