“Signora santa povertà, il Signore ti salvi con tua sorella, la santa umiltà.
La santa povertà confonde la cupidigia,l’avarizia e le preoccupazioni
del secolo presente” 

 

Lucia Baldo

La povertà è una condizione radicale
La povertà è una condizione radicale non solo dell’esistenza dell’uomo, ma anche dell’universo. Se guardiamo le cose intorno a noi, vediamo che tutto ha bisogno di tutto: perché possa sbocciare un fiore sono necessari il sole e la pioggia; gli insetti impollinatori hanno bisogno dei fiori; l’uomo ha bisogno dei fiori e di questi insetti per potere alimentarsi, e così via.
Tutto è in divenire: si nasce e si muore, si cresce e si deperisce. In tutto l’universo domina un’interdipendenza così radicale che la sufficienza, la stabilità, l’isolamento sono inimmaginabili e antiscientifici.
Ovunque è radicata un’insufficienza che le filosofie esistenziali hanno fatto propria. Pensiamo, come esempio, alle filosofie di Jaspers, di Heidegger, di Sartre, di Vattimo incentrate rispettivamente sul tema dello scacco, della povertà, dell’assurdo, del pensiero debole! Esse concordano nel non riconoscere né senso né significato all’uomo considerato per se stesso e possono così entrare in dialogo con il fondamento del pensiero francescano che parte dalla consapevolezza di un nulla che ci percuote nell’interiorità.
La filosofia del pensatore francescano S. Bonaventura è una filosofia della povertà, data dal riconoscimento dell’insufficienza dell’esistere dell’uomo, al quale non resta altra possibilità che scivolare verso il nulla o verso la fede. Il pensiero di S. Bonaventura, però, a differenza di ogni pensiero laicista, anziché fermarsi al riconoscimento della propria povertà, assegna alla filosofia anche il compito positivo di far aprire l’uomo all’incontro con Dio dal quale soltanto può venire la salvezza.
In questa visione la povertà è vista come un dono, grazie al quale una creatura è se stessa, nella sua singolarità e non si perde in maniera indistinta in un’universalità massificante. Una creatura è singolare proprio perché la sua peculiarità la distingue dalle altre creature, ma nello stesso tempo è anche bisognosa della diversità rappresentata dalle altre singolarità. La povertà creaturale è quell’“ignota ricchezza” (D. Alighieri, La Divina Commedia, Par. XI, 82) che rende sufficienti e non sufficienti, sempre in un profondo e intimo divenire esistenziale. La povertà è, quindi, una crisi continua di tutto l’universo, e specialmente dell’uomo, mai uguale a se stesso e in un continuo superamento di sé.

Tutto è ricevuto
L’uomo ha ricevuto più delle altre creature. Egli ha una ricchezza interiore più grande, perché ha: volontà, intelligenza, affettività, creatività.
Avendo ricevuto di più, può progredire di più, ma può anche chiudersi dentro la propria ricchezza e cancellare il termine ricevuto, che è quella realtà profonda in cui risiede il suo stesso esistere. La colpa di Lucifero, il primo degli angeli, che ha ricevuto più degli altri angeli, è stata quella di avere creduto di potersi appropriare di una ricchezza che non sarà mai sua. È questa la tentazione di ogni uomo: sfruttare i doni di Dio senza avere la coscienza di averli ricevuti, sovvertendo il più profondo significato della sua entità, che è quello di essere un ricevuto, e cadendo così nell’angoscia più profonda.
Anche le virtù, che in genere vengono attribuite ai meriti dell’uomo retto, nella preghiera di S. Francesco Saluto alle virtù sono accolte come eminente dono di Dio: “Santissime virtù, voi tutte salvi il Signore dal quale venite e procedete” (FF 256).

“Beati i poveri in spirito” (Mt 5,3)
I “poveri in spirito” sono coloro che hanno sempre le mani tese nell’atto di ricevere, come questuanti di Dio, ricercatori di Dio, e non si fanno possessori dei doni ricevuti, ma prendono coscienza di questa loro condizione esistenziale di fronte al mondo, a se stessi, alla società, a Dio. I “poveri in spirito” sono coloro che diventano sempre più poveri, perché si sentono peccatori, debitori insolvibili davanti a Dio.
La nudità più vera dell’uomo è il suo peccato. Riconoscere che noi non possiamo salvarci, né fare un’opera buona, se non ci è concesso dalla liberalità di Dio Padre, significa riconoscere la nostra condizione esistenziale di povertà, ma significa anche oltrepassare la nostra insufficienza aprendoci al dono della comunione con Dio e con i fratelli, non stancandoci mai di ringraziarlo e di rendergli lode.
La vita di S. Francesco è stata tutta una lode a Dio. Egli prediligeva la preghiera di ringraziamento rispetto a quella di intercessione, perché non doveva chiedere nulla, avendo già ricevuto tutto.

Il valore redentivo della povertà
Ma potremmo chiederci: perché S. Francesco ha sovraestimato la povertà fra tutte le virtù?
Tutto quello che Cristo ha fatto e ha detto nella sua vita ha valore di redenzione e di salvezza per gli uomini. Per questo motivo il Poverello di Assisi voleva seguire l’esempio di Cristo “il quale fu povero dalla nascita, povero nella vita, povero nella morte… per accendere in noi l’amore della povertà” (S. Bonaventura, Della vita perfetta, III, 1). Cristo ha assunto su di sé l’insicurezza, l’incertezza, l’umiliazione e ogni altro aspetto della vita umana, fuorché il peccato. Ma S. Bonaventura, nello scritto “Della vita perfetta, ammonisce a non scambiare la povertà con l’avarizia, “sapendo che il Figlio dell’uomo si fece povero per noi” (ibidem, III, 5).
Causa della perdita della sequela della povertà di Cristo, per S. Bonaventura, oltre al raffreddarsi del “fervore della divina carità” (ibidem. III, 7), è proprio l’“avarizia” che porta ad agitarsi tanto negli affari temporali (cf ibidem, III, 7).
L’avarizia “confonde” la povertà, come risulta anche dalla preghiera di S. Francesco “Saluto alle virtù”, significa attaccamento al possesso delle ricchezze terrestri, dimenticando che: “Avere ed amare le ricchezze è sterilità; amarle e non averle è pericolo; averle e non amarle è difficile. E perciò è utile, sicuro, dilettevole ed atto di virtù perfetta, non averle e non amarle” (ibidem, III, 8).
Cristo capovolge la mentalità del voler possedere i beni terrestri e al tentatore che nel deserto gli dice: “Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai” (Mt 4,9), egli risponde: “Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto” (Mt 4,10).
Cristo non aveva dove posare il capo, “fu spogliato e privato di tutte le cose che aveva; spogliato delle vesti… del corpo e dell’anima… della gloria divina” (S. Bonaventura, ibidem, III, 4). Sul suo esempio i suoi discepoli non dovevano possedere nulla nell’annunciare questa povertà, come verifica della verità del loro annuncio e perché la sete di Dio non venisse saziata dal possesso della terra.
La perfetta letizia di S. Francesco, pur non togliendo alla povertà la ruvidezza e le difficoltà che l’accompagnano, rende credibile agli uomini il valore salvifico, redentivo della povertà, attuato nella vita di Cristo e annunciato nel suo messaggio di salvezza.

Il Cantico 
ISSN 1974-2339
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