“E guarì i loo malati”

Il Congresso Eucaristico per la Chiesa di Bologna e per le nostre singole comunità è una grande occasione di crescita. Le tre “Lectio Pauperum” che propone il Congresso sono “lezioni” nelle quali chiediamo ai “poveri” di insegnarci la sapienza che viene dall’aver attraversato le pieghe della fragilità umana e di illuminarci sul mistero dell’uomo e di Dio a partire dalla loro esperienza. Non chiederemo ad esperti di parlarci delle persone che vivono situazioni di fragilità e disagio, ma lo chiederemo direttamente a loro. Andremo a “scuola” togliendoci i sandali dai piedi per entrare nella terra dell’altro, lasciandoci prendere per mano da loro che, come diceva San Vincenzo de Paoli, sono i “nostri signori e padroni”.

Presso il Policlinico Sant’Orsola di Bologna l’11 febbraio scorso si è tenuta la XXV Giornata Mondiale del malato. Hanno partecipato l’Arcivescovo di Bologna, S. E. Mons. Matteo Zuppi, don Francesco Scimé, Direttore dell’Ufficio di Pastorale della Salute, don Massimo Ruggiano, Vicario episcopale per la Carità e la dott.ssa Antonella Messori, Direttrice Generale del Policlinico.

img70Dopo il saluto della dott.ssa Antonella Messori, don Francesco Scimè ha introdotto l’incontro ricordando che la Giornata Mondiale del malato è stata istituita venticinque anni fa da S. Giovanni Paolo II e coincide con l’inizio delle apparizioni di Lourdes. L’obiettivo della celebrazione di questa ricorrenza, ha ricordato don Scimè, è comunicare quanto sia bello incontrare il malato, sull’esempio di Gesù che, nelle beatitudini del Vangelo, ci fa vedere la bellezza e la consolazione dell’essere poveri e afflitti.
Mons. Matteo Zuppi, Arcivescovo di Bologna, citando S. Gregorio Magno, ha detto che la parola cresce con chi la legge. La stessa cosa vale per l’attenzione all’altro, poiché la “Lectio divina” e la “Lectio pauperum” vanno di pari passo. Una lectio divina fatta superficialmente, porta a credere di aver capito all’impronta la Parola di Dio, mentre più la leggiamo più capiamo di non capire. Allo stesso modo una “Lectio pauperum” non superficiale ci insegna ad amare in maniera sempre nuova, ci pone nell’ascolto dell’altro, ci inquieta e ci fa cercare soluzioni sempre più adeguate alle domande di chi ha bisogno.
Un altro aspetto della “Lectio pauperum” è raccontare le proprie difficoltà ad aiutare. Fare questo è importante, perché aiuta a trovare risposte.
La “Lectio pauperum” ci aiuta a capire com’è la realtà, ci aiuta a contemplarla. Contemplare la realtà significa aprire gli occhi, vedere dentro, oltre le nostre coordinate. Questo non è facile, perché chi sta bene, fa fatica a capire chi è malato.
A volte si pensa che sia sufficiente fare qualcosa, ma il vero problema è come farlo.
Papa Francesco richiama spesso la nostra attenzione affinché evitiamo di assumere la cultura dello scarto in cui siamo immersi. L’incontro col povero, col malato ci offre un’occasione concreta di offrire a ciascuno l’unico pane dell’amore e di fare delle nostre esperienze un patrimonio comune per affrontare la sofferenza con maggior sensibilità.
In un mondo in cui si è purtroppo sviluppata la globalizzazione dell’indifferenza, il malato non può sopportare l’indifferenza dell’altro che lo fa sentire inutile. La sbrigatività nei rapporti ferisce, umilia e non tiene conto del fatto che il povero e il malato hanno diritto più di tutti alla tenerezza, alla comprensione e all’ascolto intelligente. L’impegno consiste prima di tutto in un’attenzione che susciti una vera preoccupazione per l’altro e il desiderio di cercare il suo bene.
Per asciugare le lacrime di chi soffre, bisogna unire il nostro pianto al suo. Per poter parlare di speranza a chi è disperato occorre condividere, avere la capacità, propria della misericordia, di immedesimarsi, altrimenti è meglio il silenzio, che spesso riesce a comunicare più delle parole.
Dobbiamo quindi fermarci, farci vicini alle persone che incontriamo, non gettare solo sguardi affrettati.
Pensando all’episodio evangelico della distribuzione dei pani e dei pesci (Mt 14,13-21) dobbiamo dar da mangiare a chi soffre, il pane della consolazione e della speranza e, allora, troveremo Dio.
Bonhoeffer dice che gli uomini sia cristiani sia pagani, nella tribolazione vanno verso Dio e lo trovano. E Mons. Zuppi ha aggiunto che con Lui, trovano anche se stessi.

Testimonianze
Paolo e Pamela Molinari sono sposati e hanno due figli. Lei ha una malattia renale congenita che, soprattutto dopo la nascita del secondo figlio, si è aggravata costringendola alla dialisi. Ma il marito, sportivo e da sempre in buona salute, le ha donato un rene, facendola rinascere a nuova vita. La loro unione, grazie anche al sostegno morale di sacerdoti, medici e famigliari, si è così ulteriormente fortificata, e li ha resi capaci di riconoscere nelle prove un’abbondanza di grazia che li ha fatti sentire debitori dell’amore l’uno verso l’altra e soprattutto verso il Signore, fonte del vero amore. “Qui mi sento in famiglia, a casa, perché sono circondato da persone che mi hanno aiutato nel cammino non facile della vita – ha detto Paolo – rivolgendosi al pubblico.
Dopo questa toccante testimonianza, è intervenuta la dott.ssa Marisa Bentivogli, coordinatrice del V.A.I., che ha parlato di quando, adolescente, desiderava la morte del nonno che riteneva causa di molti problemi per tutti i famigliari. “Poi, dopo la sua morte, mi accorsi che il nonno mi mancava e che il problema non era lui, bensì il modo sbagliato di affrontare i problemi”, ha detto.
Dopo aver esercitato la professione di geriatra, la Bentivogli ha deciso di occuparsi della solitudine del malato standogli vicino. “Il malato è un terreno sacro – ha detto –. Ci pone con forza davanti al nostro limite di creature. Ma è un limite che, nella fede, ha un futuro e una speranza”. Il malato ha bisogno dell’incontro e di questa speranza, perché vive una solitudine esistenziale incomprensibile a chi è “temporaneamente” sano.
Il malato ha un bisogno assoluto di ascolto, di qualcuno che stia davanti a lui come a un “tabernacolo vivente”, come a un “faro”, una “linea guida” importante. Da questa esigenza di occuparsi della solitudine del malato è nato il V.A.I. per creare una cultura diversa da quella corrente che vede nella medicina, spesso ridotta a tecnicismo, un’ancora di salvezza, ma non fa riflettere sulla propria condizione. Si tratta di fondare una cultura della gratuità, poiché è il Signore che ci manda e ci accompagna nella contemplazione della grandezza del malato, togliendoci la paura della malattia e della morte.
“Imparare a soffrire con l’altro, vuol dire soffrire di meno”, ha replicato l’Arcivescovo, a differenza di chi crede che per liberarsi dalla sofferenza occorra diventare asettici, tenendosi lontani dal malato.
L’espressione “non c’è più niente da fare”, ha detto l’infermiera Silvia Orlandini, nasconde che, invece, anche nei casi disperati, c’è ancora molto da fare, ossia garantire una presenza che accompagni fino al momento finale.
Il chirurgo Marco Del Governatore ha ripreso, rifacendosi a Papa Francesco e a Papa Benedetto XVI, la tematica del prendersi cura che non si identifica semplicemente col curare il malato, ma piuttosto col dialogare con lui, con l’immedesimarsi in lui, “entrando” nel suo letto, come lo stesso chirurgo ha fatto assistendo sua madre malata, anziché restando distaccati, come in genere si fa.
De Governatore ha poi citato il santo medico Giuseppe Moscati che invocava il Signore affinché concedesse a lui, medico cristiano, e a tutti i medici, di comprendere che non la scienza, ma la carità trasforma il mondo.
Il saluto conclusivo di don Massimo Ruggiano è stato un richiamo a incontrare la solitudine della persona malata che grida e deve essere ascoltata da tutta la comunità. Allora la malattia non ci apparirà solo come una realtà dell’altro, come chi dice: “Il problema è tuo”, ma ci aiuterà a formare la nostra umanità e a vincere l’individualismo, poiché noi siamo relazione, noi siamo gli altri e gli altri sono noi.

A cura di Lia Mandini (volontaria V.A.I.)