Stefano Zamagni

Parecchie sono le prese di posizione che è dato riscontrare nel dibattito, teorico e politico, intorno al tema della costruzione della pace. La posizione che le ong privilegiano si fonda su tre tesi: la pace è possibile, poiché la guerra non è una condizione permanente; la pace va costruita, perché non è un fatto spontaneo; le istituzioni più urgenti sono quelle che attengono alla problematica dello sviluppo.

img72Affermare che la pace è possibile significa prendere le distanze dal modello del “realismo politico” basato sulla nozione di balance of power, equilibrio di potenza. Per i realisti politici, la guerra è inevitabile essendo inscritta nello status naturale originario.
Ritengo vi siano più di una ragione cogente per respingere un tale modello. La diffusione della democrazia, gli interventi di peace-keeping e l’estensione delle relazioni economiche internazionali hanno determinato una considerevole diminuzione del numero delle guerre: il numero di genocidi è calato dell’80% tra il 1980 e il 2002; nello stesso periodo, le crisi internazionali sono diminuite del 70% e il numero dei rifugiati è diminuito del 45%. Invece, sul fronte del terrorismo la situazione si è pesantemente deteriorata.
La seconda tesi afferma che la pace è bensì possibile, ma va costruita. Si è soliti indicare quale data “ufficiale” di inizio del movimento non violento quella dell’11 settembre 1906, quando a Johannesburg Gandhi si dichiara pronto ad accettare la morte pur di non sottostare alla legge ingiusta. Perché il pacifismo del XX secolo oggi non è in grado, da solo, di far avanzare la causa della pace? Per due ragioni principali. Sono mutate sia le cause, sia la natura della guerra, e lo stesso pacifismo tradizionale pare oggi afflitto da una sorta di paradosso: da una parte, ha bisogno della guerra per rivendicare la pace; dall’altra, reagisce molto tiepidamente (fino ad ignorarle), a quella miriade di conflitti che coinvolgono popoli “marginali”, ma che sono poi quelli che preparano la via alla guerra guerreggiata. Ecco perché è urgente muovere passi veloci verso un nuovo pacifismo, che è stato chiamato istituzionale ed il cui slogan potrebbe essere: se vuoi la pace, prepara istituzioni di pace.
Arriviamo così alla terza tesi: quali sono le istituzioni di pace che oggi meritano priorità assoluta?
Fissiamo l’attenzione su alcuni fatti stilizzati che connotano la nostra epoca. Il primo concerne lo scandalo della fame, che non è la conseguenza di una incapacità del sistema produttivo di assicurare cibo per tutti, ma della mancanza di adeguate istituzioni, economiche e giuridiche, che la prevengano. Accade infatti che alle ben note “carestie da depressione” si aggiungano oggi le “carestie da boom”.
Non solo, ma l’espansione dell’area del mercato – un fenomeno questo in sé positivo – significa che la capacità di un gruppo sociale di accedere al cibo dipende, in modo essenziale, dalle decisioni di altri gruppi sociali. Un secondo fatto fa riferimento alla mutata natura del commercio e della competizione tra Paesi ricchi e poveri. Il tasso di crescita dei Paesi più poveri dal 1980 al 2000 è stato più alto di quello dei Paesi ricchi: il 4% circa contro l’1,7% circa all’anno. Questo vale a spiegare perché, nel medesimo periodo, si sia registrato il primo declino nella storia del numero di persone povere in termini assoluti (quelle cioè che in media hanno a disposizione meno di un dollaro al giorno). Al tempo stesso, però, la povertà relativa, vale a dire la disuguaglianza è aumentata vistosamente dal 1980 ad oggi.
Quale conclusione trarre? Che le istituzioni non sono un dato di natura, ma regole del gioco economico che vengono fissate in sede politica. Se la fame dipendesse da una situazione di scarsità assoluta delle risorse, non vi sarebbe altro da fare che invitare alla compassione fraterna ovvero alla solidarietà. Sapere, invece, che essa dipende da regole, cioè da istituzioni, in parte obsolete e in parte sbagliate, non può non indurci ad intervenire sui meccanismi e sulle procedure in forza dei quali quelle regole vengono fissate e rese esecutive.
È in ciò il ruolo fondamentale delle organizzazioni della società civile che devono andare oltre i compiti di advocacy e di denuncia per assumere ruoli ben definiti di policy-making. Come si sa, sono oltre 7mila le ong registrate presso le Nazioni Unite; parecchie delle quali di grandi dimensioni e capaci di sviluppare notevoli volumi di attività. Nessuno si nasconde le difficoltà che la realizzazione di interventi di questo tipo pone. Ma non si tratta di difficoltà insormontabili, né si tratta di obiettivi al di sopra delle possibilità. D’altro canto, tra il rischio dell’utopia e quello della distopia è sempre preferibile correre il primo tipo di rischio: la pace si nutre anche di utopia, purché presa a dosi convenienti.

(Da Vita 21/2/2017)