Un commento alla “Esortazione ai fratelli e sorelle della penitenza” (FF 178), prima redazione della “Lettera ai fedeli” di S. Francesco d’Assisi ci accompagnerà dalle pagine del Cantico a coglierne i tratti fondamentali per porci in una prospettiva di profonda conversione in questo Anno della Fede.

IV parte

francesco6. “… E SONO FRATELLI DEL NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO”
[Di coloro che fanno penitenza] Nella 2a Ammonizione il peccato originale è identificato con la disobbedienza al Signore appropriandosi della propria volontà (cfr FF 146). Ma “come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti” (Rm 5,19). Queste parole di S. Paolo ci fanno comprendere che come il peccato di Adamo è identificabile con la separazione della sua volontà da quella di Dio, così la redenzione operata da Cristo si fonda sulla remissione della sua volontà alla volontà del Padre. “Peccando, l’uomo aveva separato la sua volontà da quella di Dio. Cristo ha capovolto la situazione perché rimise la sua volontà alla volontà del Padre, secondo l’incisiva parola di Francesco. Il frutto della redenzione opera nell’uomo in misura della sua partecipazione all’obbedienza di Cristo” (K. Esser, ibidem, p. 111). S. Francesco volle partecipare alla santa obbedienza di Cristo. La prese come norma di vita e divenne così suo fratello, poiché, come dice il Prologo: “gli siamo fratelli quando facciamo la volontà del Padre”.

L’amore di S. Francesco per la santa obbedienza era appassionato perché ne conosceva la forza redentrice. Infatti il senso della santa obbedienza è quello di confondere le volontà carnali e di mortificare il corpo assoggettandolo allo Spirito e a tutti gli uomini e agli animali in quanto sarà loro permesso dal Signore (cfr FF 258). Era persuaso che il disobbediente rimanesse fuori dalla redenzione in quanto schiavo della sua volontà e dei suoi capricci (cfr FF 620). “L’obbedienza aiuta l’uomo a liberarsi dalla schiavitù dell’io, che lo ferma nel cerchio ristretto della propria volontà… Nell’obbedienza si realizza dunque il salvifico «rinnegamento di sé» con cui l’uomo appartiene di nuovo e pienamente a Dio, diviene sua proprietà, perché vuol vivere «sine proprio» anche nell’ambito della propria volontà (cfr FF 148). Tutto ciò si realizza nella sottomissione allo Spirito del Signore, nell’imitazione dell’obbedienza di Cristo. Per questo «dobbiamo rinnegare noi stessi e sottoporre il nostro corpo (cioè la nostra volontà egocentrica) al giogo della servitù della santa obbedienza, come ognuno ha promesso al Signore (FF 196)»” (K. Esser, ibidem, p. 112).

Così intesa l’obbedienza è strettamente legata alla povertà che nello spirito francescano è intesa in senso molto ampio: è anche lo spogliamento della propria volontà per lasciar posto alla volontà divina che sola deve riempire l’uomo. Ecco allora che Dio potrà operare liberamente e l’uomo “scoprirà in sé una forza superiore alle possibilità umane. Più l’uomo si mette a disposizione di Dio, con purezza e incondizionatamente, e più Dio realizzerà in lui la sua onnipotenza… In questo vincolo si stabilisce una perfetta armonia tra due volontà, che difende l’amore che unisce l’uomo a Dio, come Francesco canta brevemente, ma in modo incomparabile: O Signora santa Carità, il Signore ti salvi con tua sorella la santa obbedienza” (K. Esser, ibidem, p. 117).

L’amore di S. Francesco per la santa obbedienza caritativa era appassionato perché la considerava il fondamento di ogni vera comunità cristiana che può essere costruita solo attraverso l’amore consistente nell’aiutare l’altro ad essere se stesso anche a costo di mettersi da parte come un espropriato, come un povero. Preferiva essere suddito che superiore perché considerava pericoloso l’ufficio del superiore in quanto offre l’occasione di cadere e di perdersi (cfr FF 729). Considera “maledetti” (FF 21) od “omicidi” (FF 151) i disobbedienti e diviene inesorabilmente severo perché distruggono le comunità. Esigeva la santa obbedienza non solo nei rapporti tra superiori e sudditi, ma tra i frati: “nessun frate faccia del male o dica del male a un altro; anzi per carità di spirito volentieri servano e si obbediscano vicendevolmente” (FF 20). “Perciò il Santo educava i frati a non aspettare sempre il comando o la parola per agire. Appena un segno qualsiasi gli ha mostrato il desiderio dell’altro l’obbediente deve affrettarsi ad eseguirlo. Solo questa è la vera e perfetta obbedienza, come Cristo ce l’ha presentata” (K. Esser, ibidem, p. 110).

Graziella Baldo