Senza l’umiltà ogni virtù esplode in superbia

Saluto alle virtù
Ave, regina sapienza,
il Signore ti salvi
con tua sorella, la santa e pura semplicità.
Signora santa povertà,
il Signore ti salvi
con tua sorella, la santa umiltà.
Signora santa carità,
il Signore ti salvi
con tua sorella, la santa obbedienza.
Santissime virtù,
dal quale venite e procedete.
Non c’è assolutamente uomo nel mondo intero,
che possa avere una sola di voi,
se prima non muore [a se stesso].
Chi ne ha una e le altre non offende,
le possiede tutte
e chi una sola ne offende,
non ne possiede nessuna e le offende tutte
e ognuna confonde i vizi e i peccati.
La santa sapienza
confonde Satana e tutte le sue insidie.
La pura santa semplicità
confonde ogni sapienza di questo mondo
e la sapienza della carne.
La santa povertà
confonde la cupidigia, l’avarizia
e le preoccupazioni del secolo presente.
La santa umiltà
confonde la superbia
e tutti gli uomini che sono nel mondo
e similmente tutte le cose che sono nel mondo.
La santa carità
confonde tutte le diaboliche e carnali tentazioni
e tutti i timori carnali.
La santa obbedienza
confonde tutte le volontà corporali e carnali
e ogni volontà propria,
e tiene il suo corpo mortificato per l’obbedienza
allo spirito
e per l’obbedienza al proprio fratello;
e allora l’uomo è suddito e sottomesso
a tutti gli uomini che sono nel mondo,
e non soltanto ai soli uomini,
ma anche a tutte le bestie e alle fiere,
così che possano fare di lui quello che vogliono
per quanto sarà loro concesso dall’alto
del Signore

Signore sante virtù…
La preghiera “Saluto alle virtù” di S. Francesco si rivolge alle virtù personificandole e chiamandole “signora”, titolo che, nel linguaggio cavalleresco, indica il rispetto, la deferenza, l’ossequio che il Santo esprimeva anche nei confronti di S. Chiara e di tutte le sue sorelle. Anche le virtù a due a due sono sorelle tra loro: la sapienza è sorella della semplicità, la povertà è sorella dell’umiltà, la carità lo è dell’obbedienza. Ma non è questo l’unico vincolo che lega insieme le virtù, poiché il loro rapporto di interdipendenza è tale che “chi ne ha una e le altre non offende, le possiede tutte e chi una sola ne offende, non ne possiede nessuna e le offende tutte”.
Possiamo perciò dire che le virtù sono unite tra loro da una relazione di fraternità e di armonia tali che pur rimanendo distinte per la specificità e la singolarità propria di ciascuna di esse, tuttavia non si potrebbe cercare l’una senza volere anche l’altra. E la ferita che affligge una non può non colpire anche le altre, come nel corpo umano che non può essere pensato se non nella sua unità, cosicché se un organo soffre, tutto il corpo è coinvolto in questa sofferenza.
La preghiera “Saluto alle virtù” per questo spirito di fraternità che essa esprime, ci ricorda da vicino le creature del “Cantico di frate sole”, anch’esse personificate e chiamate “sorelle” o “fratelli”, in quanto provengono dallo stesso Padre che le ha create. Similmente anche le virtù procedono dal Signore e per questo sono chiamate “sante” e “santissime” nel loro insieme e nella loro unità…
…il Signore vi salvi!
Tuttavia come nel Cantico di Frate sole”, pur nell’atmosfera di pienezza di vita che in esso si esprime, cala l’ombra della morte seconda, la morte dell’anima per chi muore in peccato mortale, così sulle virtù può gravare il rischio di perdersi e di non essere ammesse alla salvezza, se non procedono dal Signore, ma sono espressione della nostra volontà. Ciò significa che tutte richiedono il morire a se stessi: “Non c’è assolutamente uomo nel mondo intero, che possa avere una sola di voi, se prima non muore [a se stesso]”. Il morire a se stessi porta la vita, invece la morte seconda, quella dell’anima, porta la morte eterna.
Le virtù, dunque, si possono distinguere in salvate e non salvate, in vere e false. L’umiltà per essere vera non deve essere confusa con l’ipocrisia, come dice S. Bonaventura: “Impara dunque ad essere umile veramente, non in apparenza come chi ad inganno si umilia come fanno gli ipocriti… Il vero umile, dice S. Bernardo, sempre vuole essere riputato vile e non lodato dell’umiltà” (S. Bonaventura, Della vita perfetta, in “I mistici”, I, EF, p. 429).
S. Bonaventura nella Leggenda Maggiore riporta un esempio del timore del Santo di cadere nell’ipocrisia: “… E perciò spesso quando la gente esaltava i suoi meriti e la sua santità, comandava a qualche frate di dirgli cacciandogliele bene dentro le orecchie, frasi che lo umiliavano e mortificavano. E quando quel frate, benché contro voglia, lo chiamava campagnolo, mercenario, inetto e inutile, egli, lieto in cuore come in volto, rispondeva: “Il Signore ti benedica, figlio carissimo, perché tu dici proprio la verità”” (FF 1103).
S. Francesco non voleva essere lodato ed esaltato, ma voleva mantenersi sempre sotto “la verga della correzione” (FF 173), perché la lode porta a cadere, mentre l’ammonizione porta ad emendarsi (cf FF 724; 1103).
Per questo nella XIX Ammonizione dice: “Beato il servo il quale non si ritiene migliore quando viene magnificato ed esaltato dagli uomini, di quando è ritenuto vile, semplice e spregevole, poiché quanto l’uomo vale davanti a Dio, tanto vale e non di più” (FF 169).
Nella “Leggenda dei tre compagni” si racconta che il Santo facendo “violenza a se stesso” si avvicinò a un lebbroso, gli diede un denaro e gli baciò la mano. Non era la prima volta che egli donava un denaro ai lebbrosi, ma quella volta, ispirato dal Signore dopo insistente e prolungata preghiera che lo spinse ad emendarsi, egli decise di non limitarsi a fare un’elemosina per interposta persona e a distanza, voltando il volto dall’altra parte e turandosi le narici, come faceva prima dell’inizio del suo cammino di conversione, ma volle rendersi spregevole come erano i lebbrosi agli occhi del mondo, entrando in contatto diretto con loro e servendoli umilmente (cf FF 1408). In questo modo anziché sentirsi rattristato, si sentì guarito dalla malattia dell’anima turbata e afflitta da “pensieri contrastanti” (FF 1409), a tal punto che “ciò che prima gli riusciva amaro, vedere cioè e toccare dei lebbrosi, gli si trasformò veramente in dolcezza” (FF 1408; cf FF 110).
La dolcezza da cui si sentiva pervaso era il segno che guardare gli altri non con gli occhi del mondo, ma con quelli di Dio comporta diventare umili come Cristo che dice: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29).

L’umiltà fondamento di ogni virtù
Cristo ha sempre prediletto la compagnia degli ultimi (bambini, poveri, pubblicani, prostitute…) piuttosto che quella degli scribi e dei farisei che gli erano palesemente ostili. Essi rappresentano la superbia, “principio di ogni peccato” in contrapposizione all’umiltà che è “fondamento di ogni virtù” (S. Bonaventura, ibidem). E S. Bonaventura aggiunge che senza l’umiltà “non si dà virtù, anzi ogni virtù esplode in superbia” (ibidem, p. 430).
Il peccato di superbia è il peccato originale che commise il vecchio uomo, Adamo, il quale nel paradiso terrestre non volle ascoltare la volontà del Signore il quale gli aveva proibito di mangiare dell’albero della scienza del bene e del male; invece Adamo ne mangiò per affermare la propria volontà, e fece come Lucifero che attribuì a se stesso i doni che aveva ricevuto dal nulla: bellezza, intelligenza, onore…; ma fu umiliato: “…la superbia del suo cuore lo esaltò, ma siccome la superbia è seguita dall’umiliazione, subito fu gettato dalla sua sede nobilissima nell’estremo avvilimento e colui che era stato l’angelo più eccellente divenne il più infelice dei demoni” (S. Bonaventura, ibidem, p. 430).
Come Lucifero così Adamo, mangiando dell’albero della scienza del bene e del male, si appropriò della sua volontà e si esaltò per il bene che il Signore aveva detto e operato in lui, trasformandolo “nel pomo della scienza del male” (Am II; FF 147). E così subì anch’egli l’umiliazione di essere cacciato dal paradiso terrestre.

Ha innalzato gli umili!
Si può pensare con gli occhi del mondo che l’umiltà sia degli ipocriti o dei meschini. Invece l’umile secondo Cristo è colui che sa vedere la grandezza che il Signore opera in coloro che lo seguono, come Maria che nel canto del Magnificat così esulta: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente e santo è il suo nome…”.
Come Maria, S. Francesco era cosciente di avere “scoperto un grande e prezioso tesoro” (FF 1409): la gloria di Dio a cui saranno innalzati tutti coloro che si saranno abbassati, ponendosi “sotto la potente mano di Dio” (S. Bonaventura, ibidem, p. 429).

Lucia Baldo

Il Cantico
ISSN 1974-2339
Pubblicazione riservata