Signora santa povertà, il Signore ti salvi con la tua sorella, la santa umiltà

Per divenire umili, il pensatore francescano S. Bonaventura indica un triplice sentiero da percorrere. Il primo sentiero consiste nel considerare Dio autore di tutti i beni e non nell’appropriarsi del bene che solo il Signore fa, come Lucifero che, avendo ricevuto più doni degli altri angeli, se ne volle impossessare, attribuendoli a se stesso. Si appropriano del bene coloro che dicono: “Le nostre brave mani, non già il Signore fecero tutte queste cose” (S. Bonaventura, Della vita perfetta, II, 2, p. 430). Invece il cuore di S. Francesco è il cuore del povero che si spoglia di se stesso, della propria volontà e non si esalta per i propri meriti, ma “per i beni che il Signore dice e opera in lui” (FF 147). L’umiltà è la virtù propria del povero che non trattiene nulla per sé, ma si fa nulla perché l’altro sia e perché viva gli stessi sentimenti nei confronti di chi lo ha amato per primo.
Il secondo sentiero è quello della “ricordanza di Cristo”, del “Sommo” che “si è fatto infimo”, dell’“Immenso” che si è fatto “piccolo e uomo” (S. Bonaventura, II, 4, p. 431).
Incarnandosi il Verbo è sceso tra di noi assumendo la nostra povertà, come narra il Celano nella sua prima biografia del Santo di Assisi:
“C’era in quella contrada un uomo di nome Giovanni, di buona fama e di vita anche migliore, ed era molto caro al beato Francesco perché, pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quella della carne. Circa due settimane prima della festa della Natività, il beato Francesco, come spesso faceva, lo chiamò a sé e gli disse: “Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”. Appena l’ebbe ascoltato, il fedele e pio amico se ne andò sollecito ad approntare nel luogo designato tutto l’occorrente, secondo il disegno esposto dal Santo” (FF 468).
Il terzo sentiero è la considerazione di se stessi. Infatti ognuno di noi è povero e limitato, perché è destinato a perire: se oggi siamo, domani non saremo più; se oggi siamo sani, domani forse ci ammaleremo; se oggi siamo sapienti, domani forse perderemo il cervello; se oggi siamo ricchi di ogni virtù, domani potremo cadere in disgrazia. La povertà è una condizione radicale dell’esistenza dell’uomo, che è stata fatta propria dal Verbo nell’incarnazione con la quale egli si è umiliato assumendo su di sé l’insicurezza, la fragilità, la debolezza, ovvero la povertà della vita umana (eccetto il peccato). E poiché tutto quello che Cristo ha fatto e ha detto ha valore di redenzione per gli uomini, S. Francesco volle seguire Cristo “il quale fu povero dalla nascita, povero nella vita, povero nella morte… per accendere in noi l’amore della povertà” (S. Bonaventura, Della vita perfetta, III, 1).
Per essere umili occorre riconoscere la propria povertà esistenziale che ci sospinge ad andare sempre oltre noi stessi per assomigliare, da uomini e donne imperfette quali noi siamo, all’unico che è veramente perfetto, Cristo. Guardando a Lui, riconosciamo la nostra distanza da Lui, riconosciamo di avere ricevuto dalle sue parole e dalle sue opere la possibilità di redenzione e di salvezza.
Allora l’identità del cristiano sarà quella di colui che, umilmente, riconosce di avere ricevuto tutto. I poveri di spirito sono quelli che hanno sempre le mani tese nell’atto di ricevere, come ricercatori di Dio, questuanti di Dio che prendono coscienza di avere ricevuto tutto.

Lucia Baldo

Il Cantico
ISSN 1974-2339
Pubblicazione riservata