Intervista di Fabio Cucculelli al prof. Ivo Lizzola, docente di Pedagogia sociale e di Pedagogia della marginalità e della devianza presso l’Università degli Studi di Bergamo

Quale posto viene dedicato al tema della cura nella nostra società che papa Francesco definisce “società dello scarto”? L’uomo ha perso il senso della relazione umana, della cura dell’altro? Oppure ci sono anche segnali diversi?
img99Siamo entrati da tempo in una età “senza casa” (Martin Buber, Il problema dell’uomo), in un tempo di esodo nel quale prevalgono l’incertezza e l’ansia, il cammino e la ricerca, il disorientamento e il rancore, il pluralismo e gli arcipelaghi di senso. In questo tempo emergono, forti, i risentimenti, le chiusure e le separazioni, ma si evidenzia anche la resistenza delle speranze, delle fedeltà e delle cure reciproche, anche tra le generazioni.
Non sappiamo dove andiamo e vediamo che vengono meno alcuni riferimenti valoriali, eppure all’interno delle reti familiari e di vicinato non avvengono solo da processi di distanziamento, di separazione dalla vita degli altri, che con fatica reggono i loro vissuti. Se da un lato alcuni vivono questi distacchi, emergono anche, in altri, relazioni forti: di resistenza, di rifugio nella solidarietà, nella compagnia. Esiste un diffuso tessuto fine di cura solidale che prende forme inedite, che permette di reggere, che garantisce una coesione.
Se non ci fosse, la conflittualità sarebbe già esplosa in modo dirompente, e la freddezza prevarrebbe nelle relazioni. Aprendo ad abbandoni e separazioni. A un freddo cinismo, alla di rivalsa. Il tessuto della vita quotidiana, invece, vede una fioritura silenziosa e pratica di prossimità e di vita comune.

Siamo in una società dell’incertezza in cui aumentano le vulnerabilità. Come è possibile abitare queste vulnerabilità ed avere cura delle crescenti fragilità? È possibile realizzare una nuova convivenza umana capace di costruire spazi di vita comune?
Si…ma bisogna ritrovare una strada. È necessario realizzare una sorta di incontro pacificatore con la propria vulnerabilità assumendola come tratto umano. In questa chiave è importante recuperare il senso del limite e della propria libertà. Chi è vulnerabile può affidarsi agli altri. Desidera fidarsi e affidarsi agli altri. La vulnerabilità può essere una linfa comune per costruire legami attenti. Rende importante giocare le abilità, le capacita e le competenze mettendole in comune. Attraverso una messa in comune della vita è possibile essere a fianco e sostenere queste fragilità. Penso, ad esempio, ad esperienze di spazi familiari, condominiali, di abitazioni che vengono messe in comune.
Abbiamo per troppi anni affidato la vita comune ad un ordine esterno fatto di istituzioni e servizi, delegando loro le possibilità di costruire spazi relazionali. Oggi abbiamo bisogno di costruire un progetto condiviso, di istaurare relazioni solidali, che diano fiducia. Come dicevo prima, siamo in una fase di esodo che può portare a una nuova spinta capace di generare nuovi stili di vita e una nuova fiducia verso la propria vita e quella degli altri.
Sono donne e uomini vulnerabili che, sostenuto lo smarrimento, diventano capaci di affidarsi, richiamarsi, vegliare gli uni sugli altri. Come fanno tante famiglie fragili e affidatarie ad esempio.

Lei studia da molti anni di relazioni tra le generazioni. Quali difficoltà emergono? Cosa dovrebbero fare gli adulti per dare la possibilità ai giovani di costruire un nuovo inizio? Le relazioni digitali possono avere un ruolo positivo per favore questo processo?
Il rapporto tra le generazioni è difficile anche perché le generazioni vengono rappresentate come in competizione sociale tra di loro. Questa lettura socio-politica delle relazioni tra le persone, tra le generazioni ha messo tra parentesi la dimensione psicologica, culturale, antropologica e pedagogica delle relazioni tra le diverse generazioni. Dimensioni che spesso permettono lo sviluppo di relazioni fatte di consegne, di lasciti, e di dedizioni, di cura. Oggi c’è il rischio che tutto scivoli sullo sfondo indistinto, che tutto si perda.
Bisogna avere la capacità di recuperare nelle relazioni che viviamo i tratti di una grande avventura, di un storia che interessa i padri, i padri dei padri, i figli, i figli dei figli. Avvertendo la bellezza di riprendere i sogni dei nonni e di fare spazio all’attesa di novità e di inizio dei figli. Gli adulti devono iniziare a dare spazio ai figli, all’inizio delle loro vite dentro un tempo che non è più loro. Siamo infatti alle prese con un incontro/scontro di tempi tra le generazioni, che crea distanza e contrasto; ma anche un incontro tra le generazioni fondato sulla diversità.
Mi viene in mente quello che scrive Agnese Moro in “Un uomo così. Ricordando mio padre” riferendosi al padre: “Mio padre aveva la preoccupazione di pulire il futuro dei giovani”. Questa frase è molto bella. A mio avviso gli adulti hanno il compito di pulire il futuro dei figli, dei giovani dalle scorie del passato, dai propri detriti, dal peso dei conflitti passati. In questa prospettiva la Laudato si’ rappresenta un richiamo molto forte alla nostra responsabilità personale e politica e a rivedere in modo radicale i nostri stili di vita; a non operare una separazione tra la dimensione pubblica e quella privata.
Rispetto al tema delle relazioni digitali vorrei sottolineare che siamo di fronte ad un fenomeno che apre ad una dimensione della prossimità e della responsabilità molto ampia. Il rischio del digitale è quello di far entrare in un mondo disincarnato, che ci allontana dalla storia concreta delle persone. Siamo di fronte ad una realtà che si presta a delle ambivalenze, al rischio di costruire forme di relazioni superficiali, emotive.
Dall’altra parte, però, il digitale può essere utile come luogo in cui dare respiro a quello che si vive concretamente. Serve quindi un respiro nuovo tra corpo e virtuale che può aiutare nel vivere la dimensione della cura. Il digitale dà la possibilità di dilatare gli spazi della cura e di raccontare il nuovo. Il digitale può essere un’avventura che ci consente di ampliare i gesti che facciamo nella nostra dimensione locale ospitando tutto il mondo.

Quale ruolo può avere l’educazione per costruire una nuova società che metta al centro le relazioni di cura?
Ho raccolto in “Vita fragile vita comune” gli esiti di diversi incontri con operatori e volontari. Il lavoro sociale ed educativo può permettere di leggere e di coltivare il nuovo che sta nascendo. Il tema educativo è, a mio avviso, fondamentale. L’educazione è per eccellenza il luogo della cura. Purtroppo assistiamo a derive strumentali dell’educazione, concepita come addestramento e istruzione. L’educazione è una relazione nella quale prende forma il tempo, va intesa come luogo di cura e costruzione di nuovi legami in cui ci si ascolta e ci si assume una responsabilità reciproca.
Come sottolineava un pedagogista di delicata sensibilità, Fulvio Manara, quando si svolge un lavoro educativo si è obbligati alla verità e a scoprire il gusto di dire parole nuove. Proprio per questo la scuola non può essere lo specchio della società o limitarsi a replicare nozioni. Deve essere un luogo di anticipazione del mondo, capace di cogliere le domande di futuro che vengono dai ragazzi. L’educazione è la capacità di chiedere ragione, di trovare le parole nuove per dire il mondo. Nelle classi delle nostre scuole non deve ruotare tutto intorno agli insegnanti ma ci deve essere una cura reciproca, l’uno dell’altro, e una cura del futuro. La cura quindi deve essere il cuore della ricerca educativa. In questa prospettiva è molto importante gestire il conflitto; un buon conflitto può diventare elemento generativo.

Il lavoro oggi rischia di diventare una esperienza che consuma tempo, vita, relazioni. È possibile trasformare i contesti e le esperienze lavorative in luoghi e occasione generative, capaci di costruire nuove relazioni tra uomini, donne, giovani?
Attorno al lavoro, alla sua qualità ed alla sua mancanza si raccoglie, si aggruma un cambiamento della condizione umana e delle relazioni di convivenza. Il lavoro svela una questione antropologica che interessa i percorsi identitari, il rapporto con il tempo e tra tempo biografico e tempo sociale, le relazioni tra le generazioni, tra i generi. Siamo di fronte a fenomeni e situazioni diversificate. Vediamo contesti in cui il lavoro è strumentale e soggiogato a poteri esterni, in cui diventa luogo di espropriazione di spazi di libertà.
Il lavoro produce sofferenza, malessere e fa sentire l’uomo affaticato, malato. Il lavoro entra e scuote anche le dinamiche tra le generazioni, porta le generazioni a non viversi più nel tempo “di generazione in generazione” ma a rappresentare se stesse, a volte, come soggetti sociali in competizione. C’è un conflitto tra le generazioni dentro molte realtà dell’esperienza lavorativa. La forza lavoro si sta polarizzando: non si guarda più, in molti contesti lavorativi, alla vita alle persone. Il lavoro umano consuma il rapporto con il tempo, consuma società e consuma relazioni.
Eppure lì dentro dobbiamo costruire nuovi percorsi di restituzione, di re-istituzione – utilizzando una espressione di Paul Ricoeur – delle forme umane del vivere insieme. Anche il lavoro è uno spazio in cui si resiste e si ri-esiste. Oggi, anche quando si progetta la tecnologia, occorre guardare alle persone che lavorano con uno sguardo antropologico. In questa prospettiva credo che la ricerca filosofica ed esistenziale che ha condotto Simone Weil sul lavoro sia ancora di grande attualità. La sua riflessione sottolinea come l’esperienza del lavoro, esperienza di necessità, possa diventare umanamente costruttiva, luogo dove l’uomo può essere toccato dalla grazia.
Qui si può dare la possibilità di un riscatto sociale e di educazione alla bellezza.

Perché il ruolo della cura viene affidato prevalentemente alle donne? In che modo prendersi cura in modo diverso degli anziani, dei giovani che non trovano lavoro, dei bambini? Come costruire sistemi di welfare più inclusivi e generativi? Quale ruolo possono giocare le realtà del Terzo settore?
Tradizionalmente il compito della cura veniva affidato alla donna e questo decretava, di fatto, la sua impossibilità a partecipare allo spazio pubblico. Ora le cose stanno cambiando ma è indubbio che la cura torna a provare soprattutto i contesti familiari. Ma la cura non può essere ridotta solo a questo ambito. Bisogna sempre ricordare che l’essere umano è educabile, cioè in grado di realizzare la sua forma propria attraverso l’apporto determinante di azioni di cura.
L’uomo è preposto alla cura: è oggetto di cura ed, insieme, ha cura di altri, si preoccupa di molte cose, prendendosene continuamente cura. Oggi, nella nostra vita, le dimensioni della fragilità e della vulnerabilità si ripropongono continuamente, non solo nel momento della vecchiaia, ma anche in diversi contesti e situazioni nelle quali sperimentiamo la cure amorevoli dei nostri figli. Indubbiamente l’aumento del numero di anziani non autosufficienti fa crescere le situazioni di fragilità nelle famiglie mostrando come la cura sia diventata una questione sociale, una questione che interpella il nostro stile di vita, e le forme della vita comune.
I nostri sistemi di welfare da diversi anni sono in crisi e scaricano sulle famiglie molti carichi della cura. A questi spesso fan fronte donne immigrate che si occupano delle situazioni di fragilità che riguardano i nostri anziani. È giunto il tempo di reinventare una forma di relazione tra le generazioni, di ricreare un equilibrio generazionale. In questa prospettiva è indispensabile la trasmissione da padri a figli di un racconto di vita in cui inserirsi, un racconto che crea identità narrativa e relazionale. Così come è necessario uno scambio della cura tra figli e genitori, tra nipoti e nonni. È necessario reinventare un sistema di welfare di prossimità che sostenga queste reti di relazioni.
È importante anche recuperare i compiti della cura nei contratti e nelle relazioni sindacali, e quindi anche sul piano dei diritti. Oggi esiste una domanda di buon vicinato, di relazioni più soldali, di cura reciproca. Di riapertura di progetti di vita, di reinterpretazione di tempi, capacità, aspettative. È necessaria dunque un’opera di promozione sociale, di tessitura della vita comune che passa per la messa in comune dei tempi, delle competenze, delle esperienze. Il modello di welfare non può essere quindi ripensato solo a partire da una organizzazione migliore dei compiti e delle competenze, ma va anche, e soprattutto, ripensato attraverso la riscoperta di una nuova convivenza, di un modo nuovo di stare insieme, di nuove reciprocità. (da Bene Comune 29-9-2017)