Roma, Casa Frate Jacopa, 3-5 gennaio 2015

 

Relazione di P. Giovanni La Manna

la mannaVi ringrazio per l’invito perché è una opportunità anche personale per tenere viva un’attenzione che tocca innanzitutto ciascuno di noi, come uomo, come donna, che dice di credere e di voler seguire quanto Papa Francesco ci ricorda. È un continuo essere sollecitati a provare a vivere in una maniera diversa. Provare è fondamentale perché, se ne facciamo esperienza concreta, forse qualcosa sedimenta in noi e ci dà anche l’opportunità di gustare un modo diverso di vivere, che forse aiuta anche la qualità della nostra vita.
Il Papa non fa altro che invitarci a ritornare al Vangelo, tocca temi importanti del nostro contesto, entra nelle situazioni e non si sottrae al dare una testimonianza concreta. Rimane significativo il fatto che uno dei suoi primi viaggi, se non il primo, è stato quello di recarsi a Lampedusa. Anche lo stile col quale ha realizzato quel viaggio è significativo: sentir parlare di immigrazione, di come reagiamo a questo fenomeno non solo a livello italiano ma anche europeo, e vedere che il Papa decide in forma privata di recarsi a Lampedusa, senza sentire il bisogno di incontrare i politici, senza fare cose straordinarie, è qualcosa che dovrebbe interpellarci.
Cosa ha fatto il Papa recandosi a Lampedusa, quindi entrando pienamente in questo fenomeno della migrazione che ci tocca da anni? Tutti ricordiamo le immagini: il Papa si è fermato sul molo, ha voluto incontrare i profughi, ha chiesto anche di poterli ascoltare, con un mediatore che potesse aiutarlo nella comprensione. E sul molo abbiamo visto il Papa fermarsi, salutare le persone, guardarle, ascoltarle. In più, ha voluto pregare per quanti sono morti nel Mediterraneo; ci ha ricordato che non possiamo rimanere indifferenti dinanzi a queste tragedie. Potremmo fermarci qui, alla costatazione che è stato un bel gesto, una bella testimonianza; ma secondo me ha indicato un modo che tutti quanti possiamo realizzare lì dove viviamo.

1. USCIRE DALLA PAURA DELL’ALTRO
Ormai le nostre città sono abitate da migranti; a tutti è offerta la possibilità di fermarsi, di guardare in faccia queste persone, magari di ascoltare; forse non compreremo i fazzolettini o non ci faremo lavare il vetro, ma tutti possiamo assumere un atteggiamento umano. Non ti do soldi, ma abbasso il finestrino, ti dico a parole, non a gesti, che non ho bisogno che mi lavi il vetro. Sono modalità semplici e quotidiane dove noi diciamo della nostra relazione con queste persone che il Papa ci invita pressantemente a vivere come fratelli.
È un cambio rivoluzionario, un cambio che invita ciascuno di noi a uscire dalla paura dell’altro, una paura che è stata inculcata negli italiani (ma a livello europeo) da una politica cieca che mira a spaventare sia chi doverosamente dovrebbe accogliere, sia coloro che scappano. Se io rendo impossibile il tuo viaggio, se ti faccio capire sempre di più che la traversata è mortale, molto probabilmente riesco a spaventarti e a scoraggiarti dal salire sul barcone. Questa è un’illusione, però riassume la politica europea in questo momento: tentare di scoraggiare il più possibile le persone ad imbarcarsi per arrivare da noi in Italia o in Europa. È fallimentare perché è da anni che noi assistiamo al rischio che assumono queste persone.
Chi sono queste persone? Il racconto che ci fa la televisione dei barconi che arrivano con 400 persone la maggior parte siriani, dovrebbe ricordarci che da più di tre anni in Siria c’è una guerra. Non si scappa per motivi economici. C’è una guerra che è finita nel silenzio; ogni tanto se ne parla per ricordare i morti da entrambe le parti, o perché avviene qualche rapimento, ma di soluzioni alla guerra non ce ne sono. Noi assistiamo da più di tre anni alla guerra in Siria; ci lamentiamo che queste persone tentano di giungere in Italia, in Europa.
Animati da un certo buonismo, diciamo che siamo in crisi e che varrebbe la pena aiutare queste persone nei loro paesi. Siamo d’accordo, allora aiutiamoli nei loro paesi. Ma a questo proposito dobbiamo chiederci: come mai da più di tre anni non riusciamo a pacificare la Siria? Tutti quanti conosciamo ciò che sta accadendo ai cristiani, in particolare in Iraq; se è vero che vogliamo risolvere il problema nei paesi di provenienza, come mai non ci riusciamo? È interessante vedere come abbiamo reagito come comunità internazionale ogni volta che si sono presentati dei conflitti che poi muovono le persone. I conflitti di cui non si parla sono tanti.
In Afghanistan cosa abbiamo realizzato come comunità internazionale? Abbiamo chiamato “missione di pace” una missione realizzata attraverso l’uso delle armi; cosa ha prodotto questo intervento? Noi spesso entriamo in un percorso e ci manca la capacità di fermarci un attimo, rileggere l’esperienza realizzata per capire cosa sta funzionando e cosa non sta funzionando. Se ripercorriamo l’esperienza in Afghanistan, vediamo che di pace ne abbiamo realizzata poca, se avvengono attentati nella stessa Kabul, che dovrebbe essere la capitale, il luogo più protetto per una massiccia presenza di militari stranieri; che pace abbiamo realizzato se i talebani sono ancora attivi e in determinate zone hanno loro il controllo? I ragazzi afghani, che hanno avuto la fortuna di giungere vivi in Italia e in Europa, vi dicono che è vero che ci sono gli eserciti, ma di giorno pattugliano, quindi sembra esserci un controllo del territorio, di notte lo stesso territorio diventa terreno dei talebani.
Ogni esercito ha pagato il suo prezzo in termini di vite umane. Le armi non sempre le controlli, non sono armi intelligenti; per cui ci sono state vittime civili, afghani morti perché ci sono stati degli errori. Allora, cosa ha prodotto questa missione di pace? Cosa ha prodotto l’intervento internazionale in Libia? È stata una manovra pulita, non ci sono stati eserciti europei che si sono impegnati, ci siamo limitati a bombardare in modo che non ci siamo sporcati le mani. Cosa abbiamo lasciato in Libia? In Iraq?

2. OCCORRE UN LAVORO ARTIGIANALE DI COSTRUZIONE DELLA PACE
Queste esperienze dovrebbero aiutarci a capire, soprattutto quando siamo costantemente invitati da Papa Francesco a svolgere un lavoro artigianale di costruzione della pace; questo entra nella nostra vita quotidiana, che è fatta di tante scelte che influiscono anche a un livello superiore. Noi siamo desiderosi di un mondo che funzioni in maniera diversa, dove la dignità e i diritti delle persone siano veramente rispettati e siano la priorità. Le persone devono diventare il centro dell’azione del nostro vivere, perché, se non lo diventano, cresce l’indifferenza, mentre l’economia permane al centro del nostro mondo e quindi delle scelte politiche.
L’economia è ciò che sta muovendo e decidendo del nostro vivere, del nostro futuro, non le persone. Ogni volta che capita di leggere nella Bibbia (ma anche in testi non legati alla religione) di esperienze che hanno portato uomini e donne a muoversi dai propri paesi, è facile incontrare un racconto, una testimonianza di accoglienza che era considerata sacra. Noi abbiamo perso la sacralità dell’accoglienza.
Lo straniero che arrivava in una città della Grecia non rimaneva in piazza da solo, ma veniva accolto; diventava preoccupazione della comunità accoglierlo. Vediamo oggi come la sola presenza di queste persone viene vissuta da noi e ci rendiamo conto del cammino di povertà che noi abbiamo realizzato, perché la nostra vera povertà non è primariamente economica, la nostra povertà è culturale e umana; essa porta alla crisi economica che ha il suo peso e che non possiamo rinnegare, ma non è l’inizio.
Qualche volta mi è capitato di avere un confronto con i rappresentanti della politica: “Sì, padre, capisco la sua posizione, capisco l’invito all’accoglienza, al cambio culturale, ma siamo di fronte a una crisi mondiale, una crisi economica forte che ci ha messi in ginocchio”. Viene da chiedersi: “questa crisi è piovuta dall’alto?” È qualcosa di imprevisto, un terremoto, una catastrofe? Nessuno ha deciso in merito? No, la crisi economica è frutto di decisioni di persone come noi. Determinate operazioni non si sono generate da sole.
La crisi economica non è frutto di un computer che ha sbagliato operazione ma di uomini concreti che hanno deciso in un determinato modo esprimendo tutta la loro povertà culturale ed umana. Perché se io decido determinate politiche economiche o finanziarie e non tengo conto di cosa vuol dire per l’altro, per le persone, per i più deboli, è lì che inizia la crisi. È una crisi che tocca la persona che decide di fregarsene dell’altro, del debole, perché ha deciso di funzionare facendo soldi senza pensare ai rischi, senza pensare a chi paga poi queste decisioni.

3. UNA CRISI CULTURALE E UMANA PRIMA CHE ECONOMICA
La crisi è culturale ed umana. È evidente ogni volta che si affaccia un barcone nel Mediterraneo, ogni volta che ci confrontiamo con paesi in crisi e viviamo una schizofrenia che è pericolosa. Il papa in questo ci aiuta, ci richiama sempre a essere concreti, a essere nella realtà, a essere onesti, a essere liberi. Ogni volta che arriva un barcone noi emotivamente reagiamo o in maniera rassegnata, a volte in maniera più vivace per dire che è indegno, per dire che bisogna fare qualcosa, ma poi viviamo una certa rassegnazione perché scatta l’alibi: “Io sono uno solo, cosa posso fare?”. Iniziamo a chiederci: “Io nel mio vivere quotidiano, nella banalità delle scelte quotidiane che si ripetono, come posso manifestare il mio dissenso e soprattutto testimoniare che è possibile vivere in modo diverso?” Se noi non arriviamo a questo, non cambiamo. La trasformazione del nostro mondo passa attraverso la trasformazione delle nostre vite.

4. FAVORIRE LA CULTURA DELL’INCONTRO
Cosa può metterci in movimento? Ancora una volta il papa ci aiuta: favorire la cultura dell’incontro. Ormai le politiche sull’immigrazione in Italia sono fallimentari; il contrasto è illusorio. Io non ho scelta se vivo in Siria: o decido di rischiare la vita nell’attraversata o rischio la morte nel mio paese. Cosa ho da perdere? Nulla. La mamma afghana, che ha trovato uno dei figli decapitato nel giardino, l’altro figlio lo mette nelle mani dei trafficanti e lo fa andare via dall’Afghanistan, perché la prima preoccupazione è salvare la vita del figlio; le difficoltà del viaggio sono secondarie. Queste persone non le ferma nessuno.
Dinanzi ad anni e anni di queste migrazioni forzate, come mai noi reagiamo sempre allo stesso modo? Dico “noi” anche come Unione Europea, come comunità europea. Cosa ci rende comunità, unione? Siamo arrivati a vacillare anche sull’unico punto veramente importante che è l’euro. Di fronte alle migrazioni, siamo arrivati anche a contemplare la sospensione di Schengen, la possibilità di chiudere le frontiere. Allora di che unione parliamo? Il papa ci ricorda che l’Europa ha smarrito le sue radici, l’ha paragonata a una nonna.
Quando ho ricordato questo a Milano, alla Bicocca, Prodi che era presente si è sentito toccare: “Noi l’abbiamo fatta nascere come una madre”. Eppure abbiamo assistito in un tempo breve ad un impoverimento culturale incredibile. Come mai? Ora si parla di uscita dalla crisi legata a manovre e contromanovre; ma una lettura onesta di cosa ci ha messo in ginocchio riusciamo a farla? La presenza di persone, dei profughi, dei rifugiati, dovrebbe sollecitarci fortemente a un’azione del genere. profughi
Tra quanti scappano c’è il ragazzo che viene messo dalla madre nelle mani dei trafficanti, ma c’è anche il professore di filosofia che per insegnare con libertà ha sperimentato il carcere, la tortura. Così come ci sono coloro che per rimanere fedeli alla propria fede, hanno sperimentato il carcere, la tortura e sono dovuti scappare. Dinanzi a queste persone, che è importante incontrare, uno sperimenta anche la piccolezza. Per me credere è facile: vivendo a Roma, nessuno ti contesta o mette a rischio la tua libertà come persona o la tua dignità mettendoti in carcere o torturandoti.
La domanda è: al loro posto, sarei rimasto fedele alla mia religione, alla mia idea? Queste sono persone che ci insegnano cosa significa credere nella vita e rimanere fedeli alle proprie idee e alla propria fede; quindi sono persone che meritano una grande attenzione. In maniera provocatoria, per me sono eroi e meritano un profondo rispetto. Ma la povertà culturale che noi viviamo fa prevalere la paura dell’altro: ecco tutte le campagne che ci sono state sulla “invasione”, persone che “vengono a toglierci il lavoro”, persone che “vengono in Italia per delinquere”. Queste sono persone con una grande dignità.
Se un ragazzo italiano sale sull’autobus senza biglietto, la cosa la vive con una certa normalità; il rifugiato vive la vergogna di essere esposto a una brutta figura. La richiesta più pressante che ho ricevuto negli anni al Centro Astalli è: “Padre, mi aiuti a trovare un lavoro”. Persone che non decidono di vivere di elemosina, persone che hanno dovuto azzerare la loro vita perché costrette; e arrivano in Italia, in Europa, perché sanno che i paesi civili hanno firmato una convenzione, la convenzione di Ginevra del 1951. Per cui l’accoglienza di queste persone non è buonismo, non è perché ce lo chiede il papa; gli italiani si dovrebbero ricordare che ci sono delle firme su convenzioni internazionali che toccano lo Stato, non lo stato Vaticano.

5. QUALE RISPETTO DEGLI IMPEGNI PRESI NELLE CONVENZIONI INTERNAZIONALI?
Gli impegni presi, gli stati civili li rispettano; tutta l’Europa, parte dei paesi civili, emancipati, ha firmato la convenzione di Ginevra. Però ci stiamo comportando in maniera farisaica. Se hai la fortuna di arrivare vivo in Italia, in Europa, allora puoi fare richiesta di asilo politico; ma nessuno si preoccupa di come farti arrivare legalmente nei nostri paesi, senza dover rischiare la vita e senza dover pagare i trafficanti. È mai possibile che nessuno si sia posto la domanda: io ti riconosco il diritto all’asilo politico, quindi contemplo la possibilità che tu venga in Italia a dirmi che in Siria c’è una guerra e non puoi viverci.
Però poi di come ci arrivi, di quanto rischi e di quanto devi pagare, a noi non ce ne importa niente. E il peso più elevato, per quanto riguarda la crisi siriana, lo stanno sopportando i paesi poveri limitrofi: il Libano e la Giordania. Noi paesi europei abbiamo sospeso “Frontex” che era un “mezzo passo” (detto direttamente al LEP), una reazione emotiva a 366 eritrei morti a Lampedusa il 3 ottobre 2013. Ha salvato delle vite, gli va riconosciuto, ma non li ha salvati tutti. La fesseria che ci dicono da tempo di voler colpire i trafficanti, ha un’unica soluzione: sottrarre loro i clienti. Se io sottraggo le persone ai trafficanti, il commercio è finito.
Cosa mi impedisce come Unione Europea di andare a prendere le persone nei campi profughi – l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite ci dice dove sono – per distribuirli sul territorio europeo con dignità? Siamo un’Unione; allora andiamo nei campi profughi a prelevare le persone, le facciamo viaggiare in sicurezza in modo che non debbano affidarsi ai trafficanti, che diventano sempre più intelligenti. Visto che “Frontex Plus” ha arretrato il fronte delle miglia marine, ora si sono inventati un sistema diverso: barche più grandi, inseriscono il pilota automatico e t’abbandonano perché il gommone non è più sicuro.
Il gommone ha un’autonomia di poche ore; prima, quando c’era “Mare Nostrum” e le navi si spingevano al largo, avevano speranza di essere intercettati. L’ultima esternazione a livello europeo è stata proprio questa: “L’Unione Europea deve intensificare l’azione contro i trafficanti”. Parole vuote. L’Unione Europea, se vuole essere degna, deve iniziare a dire: “Io sono preoccupata di salvare vite umane, io sono preoccupata di pacificare la Siria…”.
Questo direbbe a ciascuno di noi che qualcosa è veramente avvenuto. Ma finché ci limitiamo al contrasto del fenomeno, “io non voglio colpire i profughi, io voglio colpire i trafficanti”, è illusorio, è una bugia.
Poi è interessante iniziare a capire cosa accade a quanti hanno la fortuna di arrivare vivi nei nostri paesi. Provate a chiedere a un ragazzo afghano cosa significa una permanenza in Grecia in questo momento, ma già qualche anno fa, prima che iniziasse la crisi in Grecia, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati aveva invitato l’Unione Europea a non rimandare in Grecia i rifugiati. Esiste – altra cosa indegna – la convenzione di Dublino, per cui se tu arrivi nel primo paese che è la Grecia o l’Italia o la Spagna, in quel primo paese devi chiedere asilo politico.
Non è che arrivi in Grecia e puoi decidere, di chiedere asilo politico in Inghilterra perché lì hai dei parenti”. No. Molti di quelli che arrivano nei paesi che si affacciano sul Mediterraneo non hanno intenzione di rimanere in Italia, in Grecia, in Spagna; la meta sono i paesi del nord Europa. I siriani non vogliono rimanere in Italia ma viaggiano verso il nord Europa, Svezia in particolare dove c’è una comunità. In Italia assistiamo a situazioni… vergognose.
Se voi vivete l’esperienza di andare alla stazione centrale di Milano, all’ingresso principale ci sono delle scale mobili. Alla fine della prima rampa ci sono dei terrazzini che danno all’interno; quello è diventato il parcheggio dei siriani. Su una colonna c’è un foglio di carta: “Emergenza Siria. Ministero degli Interni”. Trovate i volontari di “Save the children” con i fasciatoi per cambiare i bambini; o che fanno attività di animazione. La prima volta ero da solo, la seconda volta mi è capitato di ripassarci con un mio confratello, che disse: “Io non me ne sarei mai accorto. È mai possibile che a Milano, non una cittadina, noi abbiamo questa situazione?”. E quella situazione lì è la più visibile, quella dove l’assessore alle politiche sociali del Comune di Milano è andato, è quella che è stata fotografata da tanti. Nella stessa civile Milano, alla stazione di Rogoredo c’è un luogo simile che non interessa a nessuno perché è il luogo dove arrivano e stazionano gli eritrei.
Noi siamo capaci di discriminare all’interno di queste situazioni drammatiche, per cui, di Rogoredo non se ne parla, però esiste; Milano si fa vedere e si utilizza a seconda dei messaggi che si vogliono dare. Che qualcosa non stia funzionando sul serio, si intuisce anche dal fatto che dal Ministero dell’Interno in maniera informale qualcuno ti dice: “Padre, riguardo i siriani la Svezia ci chiede quanti ce ne sono in transito”. Perché la Svezia già sa che sono diretti lì. Allora la convenzione di Dublino vale o non vale? La facciamo valere per gli eritrei e non la facciamo valere per i siriani? Come decidiamo di funzionare?

6. QUALE ACCOGLIENZA
L’altra cosa che non si dice è che i trafficanti non sono solo quelli che imbarcano le persone facendosi pagare anche la bottiglia d’acqua e il salvagente. Dalla Libia le ultime cifre erano 1.500 euro; mentre invece per una famiglia siriana, partire ora dalla Siria può costare anche 10.000 euro. Un afghano arriva a spendere anche 20.000 dollari, perché deve arrivare in Iran; dall’Iran lo fanno arrivare in Turchia, dalla Turchia o si imbarca direttamente o deve arrivare in Grecia a Patrasso, che è sulla costa, e raggiungere l’Italia nascondendosi nei TIR, o invece, pagando qualcun altro, percorre tutta l’ex Iugoslavia. A volte viene fermato in Bosnia o in Slovenia, viene rimandato indietro e deve ripartire. Sono viaggi che durano anche anni. Ma quando arrivano in Italia, i trafficanti operano anche sul nostro territorio. Il ragazzetto che da piazzale Partigiani vuole andare in Inghilterra, il trafficante lo contatta e lo paga stando in Italia.
lampedusa 2Quindi, quando vogliamo colpire i trafficanti, di cosa stiamo parlando? Quando la rappresentanza diplomatica inglese chiede di incontrare p. Giovanni perché vuole capire come mai gli afghani dall’Italia tentano di andare in Inghilterra, a un certo punto se ne esce: “Dovreste dire agli afghani di non intraprendere questo viaggio perché è rischioso”. Che alternativa hanno? A uno che è partito dall’Afghanistan, si è fatto l’Iran, la Turchia, la Grecia ed è arrivato in Italia, vado a dire che questo tratto è pericoloso? E perché gli devo dire che non si deve ricongiungere con il cugino che vive in Inghilterra? Che diritto ho io di dire a una persona che non si può muovere liberamente sul territorio dell’Unione Europea, quando, se voglio far viaggiare il cellulare, devo avere solo i soldi per pagare la spedizione; e se voglio muovere i soldi mi basta un computer. C’è libertà di circolazione per tutto eccetto le persone. Quindi non ci diciamo che la centralità è delle persone, perché ci facciamo del male.
Questo quando tutto funziona; quando non funziona finisci in uno di quei centri che sono finiti sulle pagine dei giornali, ma erano finiti in televisione e sui giornali già all’epoca dell’emergenza in nord Africa. È preoccupante come le situazioni animate da criteri disonesti si ripetano, rimangano permanenti nel tempo.
L’emergenza nord Africa, dove le persone sono state parcheggiate in alberghi e in agriturismo senza nessuna progettualità, si è via via ripetuta. Adesso abbiamo “Mafia Capitale”, dove senti al telefono dire “con i profughi guadagno più che con la droga”. Così quando ti va bene che sei vivo, che arrivi a fare richiesta di asilo politico, ti trovi in uno di quei centri che serve a fare i soldi sulla tua pelle.
Perché i soldi l’Unione Europea all’Italia per l’accoglienza li dà; come vengono spesi, chi lo verifica? Quando a Roma senti che, con i protagonisti che sono finiti sui giornali, apre un centro dove un rifugiato costa 75 euro al giorno e in quel centro ne vengono accolti 500, fatevi voi i conti.
L’altra cosa drammatica è che quando rispondi a una richiesta di accoglienza, devi mettere nero su bianco come accogli, quali servizi dai. Leggendo quelle carte, vedete un film bellissimo; poi andate a vedere la realtà ed è completamente diversa.
E quando insistete perché qualcuno vada a vedere cosa sta accadendo, ti arrivano le voci: “Padre, lì stanno facendo i salti mortali per avvicinare quello che c’è scritto alla realtà”. Poi in quel centro ti capita di sentire che c’è l’afghano sul tetto che minaccia di suicidarsi; lo stesso afghano tenta la stessa cosa all’Altare della Patria, i Carabinieri ti vengono a prendere: “Padre, c’è un afghano che si vuole buttare”. Lo stesso afghano, in un mese, è stato accolto, si è tranquillizzato, ha fatto la commissione per la richiesta di asilo, ha preso la sua risposta e ha smesso di avere quel desiderio di suicidarsi.
Allora, occorre non parcheggiare le persone; ma non parcheggiarle significa che ti preoccupi di loro. Se ti vengono a dire: “Padre, io sto male, alla sera non posso cenare perché vomito”. Io gli dico: “Ma l’hai fatto presente?” “Ma lì manca il mediatore. Se io sto male devo andare da solo in ospedale”. A me viene da chiedere: quel centro, che è finanziato, come funziona? “Mafia Capitale”: la vera tristezza, è che ha penalizzato persone che meritano un grande rispetto, oltre a offendere ciascuno di noi, perché in un tempo di crisi, se hai rispetto per le persone, anche un euro lo spendi con coscienza.
Ma la pena più grande è la mortificazione della vita quotidiana di chi è scappato da guerre, da persecuzioni e che ha diritto a un’opportunità dignitosa nella vita, dove i suoi diritti siano rispettati.

7. I TRAFFICANTI OPERANO ANCHE NEL NOSTRO TERRITORIO
La pena più grande è che all’interno di questo fenomeno, anche la parte meno sana del nostro contesto ha trovato modo per approfittare: quando ci sono dei disgraziati, c’è sempre qualcuno disposto ad approfittarne. Il trafficante fa la sua parte, i gestori dei centri di accoglienza che sono finiti sui giornali, fanno la loro parte. Ma c’è anche tutta una rete di persone che sono disposte a guadagnare qualcosa, per cui, quando arrivano i ragazzini minori in Sicilia, non sono al riparo dall’essere venduti a chi poi li sfrutta nelle campagne.
Così come le ragazzine che arrivano dalla Nigeria o dall’est dell’Europa; anche i ragazzi afghani sono sfruttati a livello sessuale. Queste distorsioni si realizzano nel nostro civile paese. Noi rimaniamo colpiti, diventiamo anche severi quando sentiamo il racconto della donna somala o eritrea che viene violentata nei centri di detenzione in Libia o dai trafficanti, quando, attraversando il deserto dal Sudan alla Libia, accade di tutto.
Puoi essere venduto ad altri, ti devi prostituire per riscattarti. Gli stessi traffici avvengono in Italia; quando arrivavano le prime voci di ragazzetti che venivano sfruttati anche per il traffico di organi, le prime reazioni erano di rifiuto: “Non ci posso credere”. Ma quando non sono più voci, allora tu realizzi la drammaticità di quello che stiamo vivendo, dove non c’è più un punto fermo. La sacralità dell’ospitalità è saltata; prima c’era rispetto per donne e bambini, saltato pure quello. Cosa ci rimane?

8. CONSIDERARE L’ALTRO UN FRATELLO
Questa realtà genera gli appelli di Papa Francesco a superare l’indifferenza; cultura dell’incontro, costruzione artigianale quotidiana della pace, considerare l’altro un fratello. In maniera provocatoria, qualche volta, quando la sera verso le sette e mezza arriva la telefonata dal CIE (Centro di Identificazione ed Espulsione) di Ponte Galeria, dove l’operatrice dell’ente gestore dice: “Padre, non è che ha un posto perché stanno dismettendo…” (questo è il linguaggio; quando mettono fuori una persona, il termine utilizzato è “dismettono”, anche il linguaggio dice molto).
“A quest’ora è difficile trovare un’alternativa…”. Chiedi a chi pensa di dismetterlo stasera di rinviare a domani mattina, quando è più semplice organizzare. “Padre, non ragionano…”.
Digli da parte mia: “Ha detto p. Giovanni… se fosse tuo fratello lo metteresti fuori stasera o saresti capace di aspettare domani mattina?” Le coscienze vanno messe in crisi a questo livello: è una guerra.
Quindi, ogni volta che ci relazioniamo con l’altro, chiediamoci: “Ma se questo fosse mio fratello, come mi comporterei?” Molto probabilmente saremmo aiutati a una generosità diversa, a superare qualche paura e a realizzare quella sacralità dell’accoglienza che – ripeto – è doverosa per noi italiani alla luce anche delle esperienze che abbiamo fatto come persone che hanno avuto necessità di migrare. E che i nostri giovani, per il sistema ingiusto che ci ha messi in crisi e che gli ha bruciato il futuro, hanno ripreso a fare. I nostri giovani ti dicono: “Padre, se io voglio avere un futuro, devo contemplare di andare via dall’Italia”. Come Rettore all’Istituto Massimo, le famiglie mi chiedono che tipo di istruzione a livello di inglese siamo in grado di dare; e abbiamo un progetto di studio del quarto anno di liceo fatto in Inghilterra.
Quindi persone che contemplano il loro futuro fuori dall’Italia. Nello stesso istituto per sopravvivere e vivere anche una certa fedeltà al servizio dei rifugiati (che mi hanno insegnato a vivere), al pomeriggio facciamo lezioni di italiano per i rifugiati; lì dove studiano i figli di papà al mattino, al pomeriggio favoriamo l’incontro con i rifugiati che vengono a studiare l’italiano.
“Contaminare” gli ambienti, favorire l’incontro, assumere un atteggiamento di mediazione: è una realtà che non possiamo ignorare, è parte del nostro vivere quotidiano. Possiamo decidere di viverla da credenti, come ci chiede Papa Francesco, e incidere in termini di qualità nella vita presente e nella costruzione di un mondo veramente dignitoso, rispettoso delle persone; dove la schiavitù non ha possibilità di essere.
Molti sono i discorsi vuoti. A volte ci sentiamo dire dalle Istituzioni: “Dovete dire alle persone che voi incontrate di non lavorare in nero”. Ma, punto primo, se per onestà gli dico di non lavorare in nero, che alternativa posso offrirgli? Perché se questo è scappato e nel suo paese per sfortuna ha lasciato moglie e figli, quelli devono campare.
Ok, sono disposto a dirgli: “Non lavorare in nero” però rimane il bisogno di lavorare. Cosa gli offro in alternativa? Secondo punto: in questo modo le istituzioni scaricano su di noi. Allora io sono disposto a fare la mia parte, però tu come istituzione italiana vai a dire agli italiani di non offrire lavoro in nero. A Castel Volturno qualcuno si fa la raccolta dei pomodori accordandosi che tutto quanto viene pagato a fine raccolto e poi l’ultimo giorno arriva la Polizia o i Carabinieri e, trovando gente senza documenti, se li porta via. Così l’italiano si è fatto la raccolta dei pomodori gratis.
Un’altra cosa subdola che sta accadendo è criminalizzare l’altro. Noi ci siamo trovati in una situazione vergognosa; i pochi sopravvissuti del 3 ottobre 2013, come regalo d’accoglienza – sei rimasto vivo – si sono visti attribuire il reato di clandestinità. Abbiamo superato pagine vergognose; Strasburgo ci ha condannato per i respingimenti in mare. Il somalo che è stato respinto in mare, che ho ascoltato, mi ha fatto vergognare profondamente. Alla fine ho detto: “Ti chiedo scusa, non posso dire altro”. Quindi la criminalizzazione. Ora si dice che la crisi italiana è dovuta anche al fatto che gli stranieri accettano lavori pagati poco e questo crea difficoltà. Non si contatta più l’italiano perché ha i documenti e se lo paghi meno di quello che prevede la legge, ha la possibilità di andare al sindacato e denunciarti; invece il cittadino straniero non ha questo potere di contrattazione, è nel bisogno e io ne approfitto. Facciamo attenzione perché noi stessi creiamo delle sacche di ingiustizia dove si giocano i traffici più squallidi e dove veramente la persona è schiava. La “signora per bene” romana rispetto alla badante dice: “Ma come, padre? Io la tengo in casa, provvedo al cibo, non ha spese varie, e mi chiede pure lo stipendio?” Dunque: “La tieni in casa, quindi vuol dire che è 24 ore al giorno a tua disposizione; forse pensavi che diventi la tua schiava? Un discorso del genere con un’italiana non l’avresti mai fatto”.

Io credo che noi siamo già in ritardo, ma abbiamo ancora la possibilità di incidere in tutte quelle situazioni indegne dove le persone sono offese nella loro dignità umana e nei loro diritti. È qualcosa che vale la pena realizzare per la nostra stessa dignità; alla fine siamo tutti vittime di un unico sistema ingiusto che ha sostituito la persona con i soldi e colpisce italiani e stranieri, non fa più distinzione. Quindi o decidiamo di incidere – il Papa ci dice come e ce lo testimonia – oppure noi andremo sempre più a fondo, bruciando il futuro dei nostri giovani, dei nostri ragazzi.

P.Giovanni La Manna
Rettore dell’Istituto Massimo,
già Presidente del Centro Astalli per i rifugiati