Il 28 febbraio scorso, presso la Parrocchia S. Maria Goretti in Bologna, la Fraternità Francescana Frate Jacopa si è riunita per commentare insieme il Messaggio quaresimale di papa Francesco e il IV capitolo del testo dell’anno “La misericordia nelle Fonti Francescane”. Riportiamo una sintesi degli interventi della ministra Costanza Bosi e di Lucia Baldo.

MISERICORDIA IO VOGLIO, NON SACRIFICI
!cid_416EDB29-989E-48E3-92E0-E5FC163F85B3Il papa ci invita a celebrare e sperimentare la misericordia di Dio, cosa possibile se innanzitutto la desideriamo, se sentiamo il bisogno di essere amati, se non ci pensiamo autosufficienti. Il rischio, dice il papa, è di essere il povero più misero, cioè colui che non accetta di essere tale (come il ricco Epulone). Crede di essere ricco, ma è il più povero perché schiavo del peccato. Possiamo quindi anche noi essere accecati, ingannati, nella menzogna, in un delirio di onnipotenza, talmente presi da noi stessi da non vedere Lazzaro, figura del Cristo che nei poveri mendica la nostra conversione. È una situazione di alienazione esistenziale da cui possiamo uscire se vinciamo l’illusione di colmare la nostra sete di felicità e d’amore con gli idoli del sapere, del potere, e del possedere, se ogni giorno con umiltà e fiducia cerchiamo la misericordia di Dio, la riconosciamo nella Chiesa e la incontriamo nei fratelli.
Nella misericordia “Dio rivela il suo amore come quello di un padre e di una madre che si commuovono fino dal profondo delle viscere per il proprio figlio”. È il cuore di Dio che si china sull’uomo, sulla sua miseria, nonostante la sua infedeltà.
L’AT ci descrive la misericordia attraverso le immagini della famiglia: “Dio gioca il ruolo di padre e di marito tradito, mentre Israele gioca quello di figlio/figlia e di sposa infedeli”.
Nel NT è l’amore del padre che aspetta con fiducia il ritorno del figlio che vuole essere autosufficiente; abbraccia e perdona il figlio tornato; non rimprovera neanche il figlio maggiore che non ha capito nulla del suo amore e pensa di essere a posto perché compie i suoi doveri. Ma il padre lo va a cercare perché scopra la gioia dell’amore paterno e fraterno, faccia esperienza della misericordia. Il padre non si dà mai per vinto “fino a quando non ha dissolto il peccato e vinto il rifiuto, con la compassione e la misericordia” (MV 9).
Nell’AT Dio è lo sposo che dichiara il suo amore appassionato alla sposa infedele, cerca di attirarla a sé, ricordandole quanto sono stati felici. Lo sposo è pronto a donare il perdono che guarisce le ferite causate dai tradimenti. È un dramma d’amore. Per ristabilire la relazione che ha sperimentato l’infedeltà, Dio si fa uomo, è Misericordia incarnata.
Il NT sottolinea che lo sposo ripetutamente bussa alla porta del nostro cuore. Non demorde, insiste. Ama.
In Gesù Crocifisso Dio raggiunge anche chi è più lontano, chi si è perduto, per offrirgli il suo amore. Questo amore così grande si riversa su di noi. Il sangue di Cristo rivela la misericordia, l’amore fedele e compassionevole, generoso, viscerale e materno per ognuno di noi. E questo amore tocca il nostro cuore, ci accarezza, intenerisce, ci cambia. È un miracolo: il nostro cuore, accolta la misericordia, diventa capace di misericordia, cioè abbiamo in noi gli stessi sentimenti di Gesù.
Gesù richiama il testo del profeta Osea per rispondere ai brontolii dei farisei: “Misericordia io voglio, non sacrifici”. D’ora in poi la regola di vita dei discepoli dovrà essere quella che prevede il primato della misericordia, come Lui stesso testimonia condividendo il pasto con i peccatori.
Il termine sacrifici qui ha un’accezione negativa. Le nostre opere non devono essere azioni esteriori per sentirci a posto con la legge di Dio, adempiendo il nostro dovere morale (è un rischio che corriamo continuamente come i farisei).
Pensiamo alle nostre azioni quotidiane, alle persone con cui abbiamo a che fare ogni giorno, in famiglia, al lavoro, in strada… Invece che guardarle come degli avversari, riconosciamole nel loro essere affamate, assetate, nude, forestiere, ammalate, nel loro essere nel dubbio, nell’ignoranza, nell’errore, nel loro bisogno di perdono, di preghiere… E doniamo loro la carezza di Dio.
Compiamo verso di loro atti ricchi di tenerezza, compassione, cura, bontà, perdono, fedeltà, azioni che diventano possibili per la presenza del Signore in noi, perché la misericordia di Dio può trasformare il nostro cuore e renderlo capace di misericordia.

Costanza Bosi Tognetti

S. FRANCESCO E LA MISERICORDIA
La parola “misericordia” traduce in italiano il latino “misereo cordis” (ho pietà di cuore), mentre in ebraico ci sono due termini che la esprimono. Il primo è “hesed” in riferimento alla fedeltà e alla responsabilità del proprio amore e, come tale, “hesed” esprime un aspetto maschile della misericordia. Il secondo è il termine “rahamim” (da “rehem”= grembo materno), più vicino al significato della parola italiana e latina che richiama aspetti femminili, come il vincolo profondo che lega la madre a suo figlio, fatto di tenerezza, di pazienza, di comprensione, di perdono…
Questo tipo di misericordia è molto valorizzato da S. Francesco che è incline a dare un’impronta materna alle relazioni con i frati: “Coloro che vogliono stare a condurre vita religiosa negli eremi, siano tre frati o al più quattro. Due di essi facciano da madri e abbiano due figli o almeno uno… I figli, però, talvolta assumano l’ufficio di madri…” (Regola di vita negli eremi, FF 136.138).
S. Francesco dice che il fratello dovrà amare e nutrire l’altro fratello “come la madre ama e nutre il proprio figlio, in quelle cose in cui Dio gli darà grazia” (Regola non bollata, FF 32).
E precisa: “Se la madre nutre e ama il suo figlio carnale, quanto più premurosamente uno deve amare e nutrire il suo fratello spirituale?” (Regola bollata, FF 91).
S. Francesco coglie nell’amore materno della madre carnale un “di più” rispetto a tutti gli altri amori carnali, ma pone molto più in alto l’amore del fratello spirituale che, pure, si ispira a quello materno.misericordia
La misericordia del ministro-madre si esplica innanzitutto verso i peccatori. A questo proposito è illuminante la Lettera a un Ministro che dice: “E in questo voglio conoscere se tu ami il Signore e ami me, servo tuo e suo, se farai questo, e cioè: che non ci sia mai alcun frate al mondo, che abbia peccato quanto poteva peccare, il quale, dopo aver visto i tuoi occhi, se ne torni via senza il tuo perdono misericordioso, se egli lo chiede; e se non chiedesse misericordia, chiedi tu a lui se vuole misericordia…” (FF 235).
Il Ministro (= servo) è madre perché usa misericordia e non giudica, poiché il giudizio oggettivizza le persone e non entra in comunione con loro, ma le condanna.
Quello che premeva a S. Francesco era portare gli uomini all’amore di Cristo. Per questo se i suoi frati sparsi per il mondo, riuscivano in questo intento, egli li colmava di benedizioni.
Celebre è l’episodio dell’incontro col lebbroso in cui il Santo di Assisi esprime il suo amore materno misericordioso: “Il Signore dette a me, frate Francesco, di incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E, allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo.” (Testamento, FF 110).
L’espressione “usai con essi misericordia” sta a indicare il fare dono della propria vita tipico della madre. S. Francesco non si avvicina al lebbroso solo per prestargli le cure sanitarie, pur doverose, ma per fargli sentire la propria vicinanza, per farlo sentire prossimo, per riconoscere la sua dignità che nemmeno una malattia così raccapricciante può cancellare. Anzi egli trova nel lebbroso, simbolo dell’umanità emarginata, offesa, scartata, il massimo dell’umano, poiché vede in lui il volto di Cristo, vilipeso nella Passione.
S. Francesco da ricco che era, si fa povero per poter donare se stesso, anziché i suoi denari. Preferisce divenire per il lebbroso “parola di misericordia” piuttosto che dargli delle cose materiali come si fa quando si compiono opere di beneficenza, pur utili e generose. S. Bonaventura accosta la figura del Santo a quella della vedovella del Vangelo, che dona due spiccioli al tempio di Gerusalemme. Sono solo pochi spiccioli, ma valgono più delle ingenti offerte dei ricchi, perché sono tutto quello che ella ha. Quindi questo dono cambia profondamente la sua vita e, nel far questo, compie un’opera di misericordia.
Anche S. Francesco vale agli occhi di Dio, perché dona tutto quello che ha e che è: il proprio corpo e la propria anima. In questo modo egli usa misericordia. Inizia così il cammino penitenziale della sua vita in Cristo. Gli costa fatica perché anche per lui era amaro vedere e ancor più toccare i lebbrosi, ma egli assiste così a un grande miracolo: ciò che gli era sembrato amaro fino a quel momento, si trasforma poi in “dolcezza di anima e di corpo”. È la letizia che nasce dalla conversione.

Lucia Baldo