Incontri di Frate Jacopa al Santuario di Madonna del Sasso
Riflessione di P. Serafino Tognetti
Dividerò il mio intervento in tre parti e a affronterò i seguenti temi:
1) Povertà nella Sacra Scrittura
2) Povertà e idolatria
3) Povertà in San Francesco
1. Povertà nella Sacra Scrittura
Che cosa si dice nella Sacra Scrittura della povertà? Si tratta di un concetto molto presente, ma la sua percezione cambia nel tempo man mano che si approfondisce la Rivelazione.
All’inizio non è considerata come valore. Anzi chi è povero è un peccatore, è uno che non si è dato da fare, è un pigro (Pr 6, 10). C’è poi chi è povero per il peccato altrui, per l’ingiustizia subita. La povertà in questi primi testi ha quindi una connotazione negativa.
Poi ci sono i poveri che sono diventati tali per colpe altrui, per l’egoismo dei potenti. Non sono colpevoli, quindi, e i profeti li difendono, soprattutto Osea e Amos.
Per questi casi vengono istituite delle norme per difendere i poveri, come l’anno sabbatico regolato dal libro del Levitico, una legge per restituire e ridistribuire le ricchezze. Ci sono numerose norme per difendere l’orfano e la vedova che sono considerate le categorie più deboli.
Infine emerge un’altra figura di povero: il cosiddetto anav (in lingua ebraica). È il misero, il debole, colui che tutto aspetta da Dio. È presente nei Salmi in cui si rivolge a Dio per ottenere aiuto.
Nel Salmo 86 il povero anav è una figura positiva: è il fedele e chiede salvezza, è il servo (“salva il tuo servo che in te spera”). È la vita stessa che gli dà questo senso di miseria. C’è quindi una identificazione tra povero e servo, ossia intravediamo già l’annuncio della venuta del Cristo, il servo che salverà Israele.
Maria nel Magnificat canta la gloria di Dio, e parla di sé come “povera”, “serva”, come anav che spera tutto in Dio. Anche il voto di povertà quindi rappresenta la condizione di servo che incontra le miserie nella propria vita come tutti e pone però tutta la sua fiducia in Dio.
La povertà reale è quindi una realtà interiore, ma non si può disgiungere anche dalla povertà materiale perché se ho tutto, se accumulo, non sto vivendo una condizione in cui mi aspetto tutto da Dio.
Come richiamo finale non dimentichiamo l’esortazione: “Cercate il Signore voi tutti poveri (anawim nel testo ebraico) della terra, cercate l’umiltà” (Sof 2,3).
Alla fine di questo cammino, arriva il Messia, Gesù, che si presenta come un mite e un umile, cavalca un asino per entrare in Gerusalemme, segno della regalità nella sua umiltà e povertà. Alla fine il vero anav è proprio il Messia. La povertà diventa mitezza, umiltà, e termina il suo cammino biblico. Nella sinagoga di Nazaret Gesù legge Isaia 61,1: “Mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai poveri”. Gesù usa il temine anawim, si rivolge a coloro che sperano in Dio, sentono il peso dell’esistenza e sono chiamati ad avere fiducia nel Padre che è nei cieli.
La Sacra Scrittura quindi prepara l’avvento del Cristo usando questo termine di povertà.
2. Povertà e idolatria
Un grande pericolo, una grande tentazione che tutti noi abbiamo è l’idolatria. Il primo comandamento dice “Io sono il Signore tuo Dio, amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima”, e ciò vale per tutti. La scelta di Dio, la fiducia in Lui è una scelta primaria. C’è un mondo di cose in cui sono immerso che non sono Dio, e se non le vedo alla sua luce, le cose mi distruggono.
Scrive don Divo Barsotti: “Come siamo ingenui a credere che l’idolatria sia avere in casa un dio pagano a cui offrire incenso. Noi offriamo omaggi alle cose, alle creature, le serviamo continuamente e non ci accorgiamo che questa è la nostra idolatria”. Non avrò le statuette, ma avrò una casa, un lavoro che spesso possono sostituirsi a Dio. Se le cose diventano il mio tutto, esse si sostituiscono a Dio.
L’uomo, ogni uomo, anche l’ateo, ha bisogno di una fede, di vivere per qualcosa, può essere anche una squadra di calcio. Se ha fede in quello, quello prende il posto di Dio. Se ci pensiamo, allo stadio infatti abbiamo delle vere e proprie liturgie (inni, cori, sfilate, bandiere, ritualità, ecc…).
Ma anche le cose buone possono diventare idolatria, ossia prendere il posto di Dio, e quindi distruggermi. L’antidoto all’idolatria è la trasfigurazione delle cose del mondo per essere riconsacrate e portate a Dio. Allora tutto diventa segno della presenza di Dio che mi porta all’adorazione di Dio, all’unione con Lui proprio attraverso le cose. La creazione diventa allora il volto di Dio e l’uomo in essa trova il suo compito: riportare le cose a Dio.
Chi vive in questa dimensione contemplativa vede tutto come segno di Dio e la vita diventa una realtà meravigliosa.
San Francesco rifiuta le ricchezze in quanto pretendono un’autonomia, distolgono dal cammino verso Dio. Non è rilevante quale sia la ricchezza, perché posso attaccarmi a qualsiasi cosa . Il primo comandamento è il fondamento di tutti gli altri perché io posso amare tutto se lo amo in Dio. Gesù infatti dice che tutto il resto dobbiamo odiarlo: “Chi non odia il padre e la madre…” questo perché anche gli affetti parentali possono diventare ostacoli che impediscono di crescere nel regno di Dio.
Il rischio è di creare due mondi, separando le cose da Dio. Se nel “mondo di Dio” ci vado solo alla domenica in chiesa e tutto il resto del tempo lo vivo nell’altro mondo senza Dio, dove governa il principe di questo mondo cioè il Maligno, il tenebroso, l’opaco, allora facilmente cado nell’idolatria. Ma Dio ha fatto un’unica creazione, non due o tre, e vuole che viviamo in questa unica. In noi c’è questa lacerazione perchè siamo attirati dalle cose, viviamo il desiderio, l’emozione che ci lacera e ci porta al mondo senza Dio.
L’unità tra Dio e le cose è il compito dell’uomo, re del creato.
La povertà è la via per la riconsacrazione del mondo e il raggiungimento dell’unità, ma esige una chiarezza di fondo. Ogni giorno io mi devo chiedere “cosa voglio?” e rispondere “voglio Dio”, come la beata Angela da Foligno. Così si ricompone questa unità e ciò dona la perfetta letizia. Infatti risultato ultimo di San Francesco non è la povertà ma la perfetta letizia. La povertà è cercata per eliminare ciò che non è Dio e non mi porta a Lui, vivendo con l’indispensabile unificando tutto in Dio. Ecco perché lo spogliamento ha come risultato non la tristezza, ma al contrario la perfetta letizia: ho trovato Dio e in Lui ho tutto.
Per abbattere l’idolatria allora l’unica via è la povertà. Dalla lettera 1 Tim 6,10 leggiamo: “L’avarizia è la radice di tutti i mali”. Non l’impurità, la cattiveria, ma l’ attaccarsi alle cose che Dio mi dà, anche le cose utili e buone. L’avarizia è quindi una maledizione.
La povertà effettiva, materiale, diventa la vera testimonianza del mio cristianesimo, dimostra che sono cristiano e che credo realmente in Dio. È un segno importante: non posso parlare di Dio se sono legato a cose materiali in modo assoluto.
Il distacco, la solitudine della povertà, e la rinunzia totale è quindi “più grande della carità” dice paradossalmente Eckart, un teologo domenicano del trecento, “perché costringe Dio a donarsi e Dio diventa il tuo bene”. È il discorso del sottovuoto: se creo il vuoto costringo Dio a donarsi, Dio deve trovare il mio nulla per donarsi. E Lui è più grande della mia presunta piccola carità, è Lui la vera carità, il principio dell’amore viene in me. Non sono io che mi sforzo di amare, ma vivo l’amore di Dio che è in me.
Don Divo Barsotti ai francescani scrive: “Voi pensate che usando molti mezzi, l’apostolato diventi più efficace. È vero il contrario. Si finisce per parlare di Dio come di un estraneo. Il miglior uso dei mezzi è farne a meno”, usarli cioè in modo distaccato, non dipendere da essi.
Essere poveri significa possedere Dio; “Tu sei la mia grande ricchezza” è il grido di San Francesco d’Assisi nelle Lodi di Dio Altissimo.
3. Povertà in San Francesco
Non si capisce la povertà di San Francesco se non si parla della sua l’umiltà.
Francesco non vuole fare un’azione di protesta sindacale contro le ricchezze della Chiesa del suo tempo; anzi è molto vicino e attento ai chierici a cui, dice, vuole baciare le mani. Il santo parte da un sentire sé come nulla davanti a Dio, e in un linguaggio molto crudo così esprime il suo sentirsi peccatore: “noi miserevoli servi, pieni di putrido fetore, ingrati, cattivi… A noi non appartengono se non vizi e peccati” (Rnb). Questo basso sentire di sé, questa umiltà gli permette di accogliere il Tutto e di eliminare tutte le forme di idolatria.
Scrive sant’Ignazio di Antiochia: “Chi mi loda mi frusta”. Se tengo per me una lode e non la dono a Dio diventa la mia avarizia. Un famoso predicatore del ‘600 aveva incaricato una persona di dargli delle bastonate in sacrestia dopo aver ricevuto delle lodi per le sue prediche. In questo modo si comporta anche San Francesco che di fronte alle lodi ricevute chiede a un frate di dirgli delle parolacce per sentire la verità su di sé. Bisogna usare questi mezzi per sentirsi umili? Dipende dalla forza della tentazione.
La povertà è la condizione di qualcosa d’altro, non è mai ricercata come fine ultimo. Può addirittura diventare idolatria, se vivo la povertà per essere ammirato, sentirmi migliore: allora diventa idolatria, e il mio orgoglio si nutre dell’ammirazione degli altri. È la tentazione degli eremiti: essi sanno di avere l’ammirazione di tutti, mentre la vera vocazione eremitica è sentirsi il peggiore di tutti. È una vocazione difficile perché il maligno tenta molto chi si stacca da tutto per essere di Cristo. Il santo curato d’Ars si sente l’ultimo, una nullità, ed era pieno di Dio, ma non se ne accorgeva.
Francesco vuole seguire la vita e la povertà di Gesù che fa sì che il Padre sia tutto. Gesù è “vuoto di sé”, per così dire, e pieno di Dio, vuole fare la volontà del Padre. Francesco è affascinato dalla povertà di Gesù che scelse una vita povera, da ricco che era si fece povero per arricchire noi mediante la sua povertà (2 Cor).
In Francesco umiltà e povertà si identificano. Egli contempla la povertà nella natività e nell’Eucarestia: “Ecco ogni giorno egli si umilia” scrive nella prima Ammonizione. Solo l’umile ama davvero, non guarda sé stesso; così sarà la vita nel Paradiso dove ci ameremo l’un l’altro: non avrò lo sguardo rivolto su di me e la mia gioia sarà nel lasciar posto agli altri, nel vivere negli altri.
La linea di fondo è quindi eliminare concretamente ciò che non conduce a Dio. Interrogarsi se ciò che faccio, chi incontro, cosa compro, eccetera, mi avvicina a Dio oppure no. Riguardo alle cose materiali mi devo chiedere se mi servono realmente o no per vivere.
Anche i desideri, le aspirazioni, i pensieri se non mi conducono a Dio, li devo eliminare. “Chi non raccoglie con me disperde”, dice chiaramente Gesù. Ci vuole quindi discernimento, e in questo un padre spirituale può aiutare perché si esprime per conto di Dio. Non è detto che io debba gettare via tutto in un colpo solo: la povertà può essere progressiva e d’altro canto la vita stessa aiuta a spogliarci col passare degli anni… Accettare di diventare vecchi, di perdere importanza, che grande grazia è questa! In sintesi si possono suggerire alcune tracce a cui fare riferimento:
– Vivere la sobrietà, cioè eliminazione di vari surplus. Quando hai Dio, lo conosci, ti distacchi dalle cose perché hai tutto e diminuiscono quindi i bisogni. Ci si può attaccare anche alle cariche e te ne accorgi se quando non le hai più, vivi ciò con distacco, anzi, con gioia.
Ragioniamo seriamente sulle nostre esigenze personali; la rinuncia al superfluo può essere penosa, perché ne siamo schiavi; ce ne accorgiamo per esempio quando abbiamo una grande sofferenza, come per esempio la morte di una persona cara; allora nel dolore non ci importa più delle cose inutili, ne capiamo la vacuità . La libertà interiore dalle cose dà gioia. Serve o non serve? È la domanda che ci dobbiamo fare.
– Amare il nascondimento. La visibilità, il numero, il compiacimento delle cose fatte possono essere tentazioni. Quello che succede alla Fraternità Frate Iacopa può essere una grazia, alla fine: privati di ogni appoggio, spogliati delle cose materiali, siete in una condizione invidiabile, siete pellegrini senza nome. Si è nella condizione di anawim. Lo capite che il Signore può davvero lavorare molto con voi? Non avete che Lui, ora!
La povertà può essere una prova, una purificazione per tornare a essere veramente minori, per esercitare la fede, per vivere la perfetta letizia senza giudicare e condannare cercando la benedizione dal Signore.
Chiudo con una splendida citazione di Kierkegaard, che vi può aiutare a capire il vostro cammino: “Quando il ricco va in carrozza, provvisto di fiaccole nella notte scura, vede un po’ meglio del povero che procede nell’oscurità; tuttavia egli non vede le stelle: proprio le sue fiaccole glielo impediscono. Allo stesso modo accade con ogni criterio mondano: esso vede il bene da vicino, ma è privo della visione dell’Infinito”.
P.Serafino Tognetti
Comunità dei Figli di Dio