Recensione del libro di Fabio Pizzul a cura di Mons. Mario Toso
Il volume di Fabio Pizzul, da cui qui ci si muove per affrontare un tema sempre più cruciale, che non può essere liquidato con una battuta da scoop, porta un titolo chiaramente provocatorio: Perché la politica non ha più bisogno dei cattolici. La democrazia dopo il Covid-19 (Edizioni Terra Santa, Milano 2020). Un simile titolo, però, sembra includere declinazioni o interpretazioni errate o, per lo meno distorte, dell’impegno dei cattolici in politica. E cioè: a) che la politica odierna, all’epoca dei moderni social media – megafono di una politica «urlata» e, quindi, poco inclini ad accogliere un pensiero politico argomentato, fatto di ragionamenti, di mediazione e di testimonianza, cf p. 144 –, e per come spesso è gestita al servizio degli interessi più organizzati, non abbia effettivamente più bisogno dell’apporto dei cattolici; b) che i cattolici siano dei «minori», ossia persone incapaci di stare in politica o, addirittura, di non essere detentori di una vocazione politica che li solleciti al servizio del bene comune; c) che i cattolici, se pure possono essere impegnati in politica, si pongano in maniera necessariamente sottodimensionata o subordinata ad altri. E questo perché c’è chi, come taluni esponenti della gerarchia ecclesiale (l’A. fa riferimento, ad esempio, al cardinale Ruini, a lungo presidente della Conferenza episcopale italiana), decide al posto loro nelle trattative su questioni cruciali o perché i cattolici sono da considerare alla stregua degli «utili idioti», dei quali sembra abbia parlato Palmiro Togliatti già nel dopoguerra.
Da quanto, però, si può arguire da una lettura attenta del saggio, l’Autore, cattolico, impegnato nelle file del Pd, se pure censisca queste inadeguate declinazioni del titolo del suo saggio, non chiude la porta alla necessità di un nuovo impegno dei cattolici in politica.
Tutt’altro.
Infatti, proprio nella conclusione dell’ultimo capitolo (cf p. 160), giunge a dire che il contributo dei cattolici, proprio in questo frangente storico del dopo Covid- 19, può essere fondamentale per il futuro del nostro Paese, ma è indispensabile che si pensi ad organizzarne una rappresentanza efficace e visibile, per far vigoreggiare la solida radice culturale che a loro appartiene.
Ma c’è, però, da chiedersi: a quali condizioni? A conti fatti, quanto espresso dall’Autore, resterebbe un semplice auspicio se non venissero superate quelle remore culturali e quei pregiudizi che tengono «prigionieri» i cattolici, costringendoli in uno stato di minorità o di irrilevanza politica, in cui si trovano attualmente. Lo stesso Pizzul, rifacendosi a Nando Pagnoncelli (cf p. 12), noto sondaggista, fa cenno alla frammentazione identitaria che in questi anni ha colpito i cattolici. Non si tratta propriamente della frammentazione politica, causata dalla cosiddetta ideologia della diaspora. Si tratta, invece, del fatto che la propria fede religiosa non sembra più conformare, non riesca cioè ad unificare, i vari comportamenti dei credenti.
Sicché essi tendono a vivere una netta separazione tra fede e impegno sociale, tra fede e politica. Possono amare papa Francesco, sottolinea Pizzul, e volere i porti chiusi. In altri termini, la maggioranza dei cattolici riterrebbe di essere in politica non ultimamente per ragioni di fede – ciò, secondo loro, sarebbe deleterio per il dialogo pubblico – ma solo per ragioni umane. E così, il cuore dei credenti in politica graviterebbe inevitabilmente e solo verso i partiti e non certo verso la comunione con Cristo e il suo Vangelo.
È indubbio, diciamocelo pure, che questo modo di pensare di non pochi cattolici pone per la Chiesa, che si sta avviando ad iniziare un cammino sinodale, una questione teologica ed ecclesiologica, una «questione cattolica » direbbe Gianfranco Brunelli (cf p. 144), non piccola. Infatti, il suddetto modo di pensare si nutre di questo presupposto: l’essere specifico del cristiano non giustifica un impegno peculiare dei credenti nella politica.
In politica si deve essere presenti senza ragioni religiose, in definitiva senza il riferimento alla Dottrina sociale della Chiesa. Ma non finisce qui. Quanto detto implicherebbe altri presupposti, altrettanto gravi per i politici cattolici: al lato pratico, non esisterebbe l’incarnazione di Cristo che assume e redime l’umanità; il credente che si impegna in politica non ha, per conseguenza, il compito di vivere la politica, come suggerisce papa Francesco nella Fratelli tutti, secondo carità, ossia secondo l’amore trasfigurante ed innovativo di Cristo. Parimenti, non ha il compito di vivere la politica scegliendo come principio architettonico della democrazia la fraternità.
Il credente è chiamato a servire il bene comune come semplice cittadino e non perché è credente. Non esiste una vocazione cristiana al bene comune. In definitiva, ai cattolici per vivere in politica non servirebbe la fede. In politica, il cattolico può vivere scisso da sé. Se ciò fosse vero si avrebbe un impoverimento motivazionale dell’impegno politico del credente, il quale sarebbe esposto, per conseguenza, a facili infeudamenti in questo o in quel partito. Tra l’altro si andrebbe esattamente a negare l’appartenenza ad una comunità di discepolato missionario ecclesiale in cui si può vivere l’esperienza dell’essere amati da Dio, e con ciò stesso del vivere il suo amore anche in politica.
Il saggio di F. Pizzul, scritto in maniera giornalistica, ma non per questo meno profondo, merita di essere letto con attenzione. Si tratta di una «provocazione» utile a far chiarezza nel mondo cattolico. Necessita, però, di essere «completato» con una pars construens.
Il Cantico
ISSN 1974-2339
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