La sentenza della Consulta ha riaperto il dibattito sul suicidio assistito.
Ora il Parlamento deve sbloccarsi. ma non si sa più qual è il “valore primo”

Francesco Occhetta

La sentenza della Corte Costituzionale ha riaperto il dibattito sul suicidio assistito sul caso Cappato. L’immobilismo del Parlamento ha imposto ai giudici di regolare un caso particolare e farlo diventare una norma generale. Così è stata introdotta una scriminante all’art. 580 del Codice penale sull’istigazione e l’aiuto al suicidio che puniva senza condizioni chi avesse aiutato una persona a mettere in atto la sua decisione di porre fine alla propria vita. Invece la Corte ha escluso la pena quando ricorrono quattro circostanze rigorose e stringenti: “Un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che reputa intollerabili ma capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. È stata prevista un’ulteriore garanzia: la norma non è autoapplicabile, è un dispositivo, sarà il Servizio Sanitario Nazionale ad accertare le quattro condizioni citate. Si è evitato che l’eutanasia rientrasse nel gesto di cura e che cliniche private, come quelle svizzere, possano costruire un grande business intorno al fine vita.
img113La Corte ha chiesto al Parlamento di intervenire rapidamente perché è cosciente di aver creato una crepa in una diga che potrebbe esplodere e cancellare con il tempo le condizioni restrittive imposte secondo l’antico principio de iure condendo. Tuttavia fino a quando i parlamentari e le forze politiche non si spingeranno alla fonte in cui nasce il tema, siamo destinati a essere paralizzati dai detriti portati alla foce come le divisioni, le fazioni ideologiche e gli interessi particolari.
La Cei, prima dell’estate, aveva proposto al Parlamento di ridurre le pene senza depenalizzare il gesto, dopo la sentenza ha chiesto di prevedere l’obiezione di coscienza dei medici. Per quale ragione manca un vero dibattito parlamentare sul tema? Il M5s insieme a parte della sinistra tendono ad appoggiare la cultura del suicidio assistito per arrivare all’eutanasia. Ci chiediamo: qual è il valore primo? Rafforzare una relazione o esaltare l’autonomia dell’individuo?
Certo, per la medicina tecnologica la morte rimane un incidente e una battaglia da vincere, anzi ci spinge a riformulare alcune delle domande radicali dell’esistenza: quando la vita passa la soglia della morte? La morte è il confine della vita oppure è la fine della vita?
A queste domande da una parte la cultura (tecnica) risponde allungando il processo del morire regolato e programmato dalla ricerca scientifica… dall’altra la medicina si trova costretta a chiedere al paziente se vuole morire, rifiutando poco a poco le macchine che lo tengono in vita.
Una cultura democratica che si dice liberale (non liberista) e basa il fondamento della libertà sulla responsabilità verso l’altro è chiamata a fondare il “fine vita”, senza evitare il tentativo “moderno” di esorcizzare un’inquietudine che da sempre abita il cuore dell’uomo e a interrogarsi pubblicamente sulle ragioni del dolore e della morte, non sfuggire dalla memoria mortis.
La personalizzazione e l’umanizzazione della medicina non crescono con la tecnicizzazione della medicina sempre di più concentrata sull’azione del “curare” (to cure) la malattia e sempre meno su quella del prendersi cura (to care) del mondo affettivo, relazionale, psicologico e spirituale del paziente. L’invasività della tecnica non prepara il paziente a consegnarsi alla morte, ma a un liberarsi o meno dall’ultimo laccio che lo intrappola. Non è questo un paradosso?
La morte non è più considerata come “un momento”, ma è concepita come un processo, a tal punto che è sempre più difficile individuarne l’attimo. La riflessione deve anzitutto mettere al centro il significato di “vita umana” e di “morte umana”, di “dignità della vita” e di “dignità della morte”. Altrimenti finiremo per guardare la vita nella prospettiva descritta da Søren Kierkegaard: “Quando la morte è il più grande pericolo, si spera nella vita; ma se si vede un pericolo ancora più tremendo, si spera nella morte. Quando dunque il pericolo è così grande che la morte è diventata la speranza, la disperazione è la non speranza di non poter nemmeno morire”.
Eppure gli elementi per un dibattito adulto e maturo in Parlamento ci sarebbero tutti. Un editoriale della Civiltà Cattolica li richiama: “Sotto questa luce, eutanasia e accanimento terapeutico sono due facce della stessa medaglia: pretendono di controllare la morte attraverso la ‘cultura’, pensando di ignorare la ‘natura’ con le sue leggi. Invece la vita e la morte, non esistono in astratto e non sono astrazioni culturali; esiste invece l’uomo concreto che cresce e ama, progetta e spera, vive e muore. Del resto chi può essere così sicuro di decidersi per la fine della vita? All’uomo non è data la possibilità di sperimentare la morte in prima persona e poi di raccontarla, perché è sempre e solo ‘morte dell’altro’. Accogliere il proprio ‘essere per la morte’, invece, apre anche a un orizzonte di possibilità, che inizia con lasciare la propria traccia nell’altro e nella storia”.
Occorre spingersi alla domanda più estrema: quando si muore, chi muore? La vita non si riduce al solo significato biologico, alle reazioni biochimiche che si studiano in un laboratorio, ma anche al significato biografico, costituito dall’incontro con se stesso, con gli altri, con il mondo e, per il credente, con Dio.
Morire con dignità significa per la persona malata nella fase terminale della malattia il diritto ad una assistenza rispettosa che risponda ai bisogni assistenziali della sua dimensione biofisica, ma anche a quelli delle sue dimensioni biografiche, come quelle psicologiche e spirituali. Il presupposto antropologico è il significato più ampio di salute che dal latino salus richiama la salvezza.
L’orizzonte per rispondere alla cultura del suicidio assistito deve essere quello della solidarietà e dell’aiuto concreto e possibile che va oltre ogni principio: “Per guarigione non si deve intendere solo il recupero fisico, ma quando questo non è più possibile, per guarigione si deve intendere anche la pacificazione psicologica, la forza interiore, il coraggio, la forza morale e spirituale, la capacità di non andare alla deriva, anche se il corpo si sgretola. Anche per il malato nella fase terminale della malattia, allora, si può parlare, almeno in senso lato, di guarigione. Sarà “guarito” se riuscirà ad affrontare con coraggio e con dignità l’ultimo atto della sua vita terrena. Lo potrà essere, se l’assistenza, nel senso più ampio della parola, lo avrà curato nel suo morire” (Anzani).
È questa la sfida del Parlamento: garantire la cura nel morire data dalla relazione e dall’aiuto concreto alle famiglie. Per i credenti c’è poi una responsabilità in più: testimoniare una concreta vicinanza d’amore per rendere eterna la vita del morente.