Bellamonte, 23 – 26 agosto 2016
Sintesi dei lavori a cura di Graziella Baldo
Dal 23 al 26 agosto 2016 si è svolto a Bellamonte presso la sala polifunzionale “Aldo Moro” il Convegno sul tema: “Abitare la terra. Abitare la città”, promosso dalla Fraternità Francescana e Cooperativa sociale Frate Jacopa, con il patrocinio del Comune di Predazzo. Il Convegno, ormai al suo 4° appuntamento in questa cattedrale naturale delle Dolomiti, sta diventando un cammino in progressione sui temi della custodia del creato e dell’umano per nuovi stili di vita più fraterni e solidali.
Nell’introdurre i lavori la Presidente nazionale Argia Passoni ha posto l’attenzione sull’esigenza di un abitare più umano nella complessità del tempo presente, a fronte di una società sempre più frammentata e di una relazionalità sempre più anonima. Si tratta di ripensare l’abitare, che deve ritrovare le sue profonde radici antropologiche e teologiche per poter passare da un abitare difensivo ed escludente ad un abitare accogliente, proteso al futuro, capace di umanizzare la vita, la città, il mondo.
È un cambiamento di rotta da porre in atto che riguarda tutti gli uomini e le donne del pianeta, ma che ci riguarda particolarmente come cristiani, chiamati come siamo a rispondere in prima istanza dello statuto creaturale, da cui dipende il vero ben-essere dell’umanità.
Il nostro Convegno vuole intraprendere una riflessione in questa direzione – ha detto A. Passoni – per sollecitare alla presa di coscienza della responsabilità dell’abitare, tanto più importante oggi di fronte all’avanzare di un abitare che favorisce la costruzione di identità effimere basate sul consumo e sul virtuale, e dunque sempre più esposte alla manipolazione e sempre più incapaci di prossimità. Non a caso i sociologi oggi parlano di “non luoghi”, spazi connotati dall’estraneità, dalla provvisorietà, privati di senso di appartenenza.
Lo stesso paesaggio delle periferie è uniforme, senza centri di riferimento per la vita comunitaria. I luoghi di riferimento diventano così i centri commerciali, non le piazze, non la chiesa, non le istituzioni. E nella forma sempre più artificiale delle megalopoli si rende evidente di pari passo la scomparsa di Dio e la scomparsa della città come luogo sociale.
È uno scenario che ci rimanda quasi plasticamente ai due modelli emblematici di città che la Bibbia ci presenta: Babele, progetto idolatrico autoreferenziale con la conseguente estraneità distruttiva, e Gerusalemme, il progetto alternativo di città che richiama invece alla consapevolezza che costruire la città non dipende solo dagli uomini.
Va riportata al cuore la profondità dell’abitare, come ha evidenziato il Convegno Ecclesiale Nazionale “Firenze 2015”. L’abitare è connesso al dono di un Dio che viene ad abitare tra noi, che vuole farsi dimora in noi, dimorare nei nostri cuori perché noi possiamo abitare il tempo e lo spazio secondo il suo progetto di amore. Abitare dunque è dimensione essenziale dell’incarnazione: un esserci, uno stare dentro, uno stare in situazione che implica un dinamismo.
Per ogni cristiano è innanzitutto un farsi abitare da Cristo perché solo a partire da qui, da questo inabitare, che io posso pienamente fare spazio all’altro. E questo esige la cura dell’interiorità ma anche della socialità perché l’uomo è sempre più persona nella misura in cui cresce la reciprocità tra queste due dimensioni, nella misura in cui è in questa concretezza relazionale, in un con-crescere per la cura del proprio stare nel mondo in modo fraterno ed ospitale.
ABITARE LA CITTÀ RIGENERANDO IL SOCIALE
La speciale apertura del Convegno con la stimolante relazione “Abitare la città, rigenerando il sociale” proposta da S.E. Mons. Mario Toso (Vescovo di Faenza Modigliana) ha portato in presenza la necessità di investire sul paradigma della generatività sociale per andare oltre la società materialistica e consumistica di oggi e superare quelle forme di relazionalità che disumanizzano i singoli e i gruppi, le istituzioni e le strutture.
Senza relazioni sociali, abitate da un umano positivo, si finisce per vivere in un «ambiente» che non favorisce la crescita delle persone, secondo libertà e responsabilità. Senza un sociale umanizzato ed umanizzante non è possibile vivere in una democrazia inclusiva e partecipativa. Tra i vari esempi che si possono fare di disumanizzazione del sociale ricordiamo innanzitutto la disumanizzazione della politica che da attività a servizio del bene comune spesso si trasforma in uno strumento di lotta asservito a interessi di parte.
Un altro esempio è dato dal mercatismo ovvero dalla mercantilizzazione di ogni realtà e relazione, che causa povertà e disuguaglianze.
A rendere antiumano il sociale – ha proseguito Mons. Toso – contribuisce innanzitutto un individualismo radicale e libertario contrario a un’economia inclusiva e a una democrazia partecipativa, volto com’è a distruggere le relazioni sociali, la prossimità, i beni relazionali come la famiglia.
La seconda causa della decostruzione del sociale è data da un neoutilitarismo associato a una tecnocrazia che assolutizza i mezzi rendendoli fini. La terza causa è data dalla concezione della società come sistema e sottosistema di relazioni dotato di un proprio codice etico (le regole del mercato, i giochi della politica…) su cui i singoli non possono influire.
In questo modo le persone sono considerate oggetti esterni ai sistemi sociali. Invece la persona si realizza nella sua libertà solo attraverso una relazione interumana dotata di qualità e proprietà specifiche che la rendono capace di relazioni generative proprie della persona libera e responsabile, aperta alla trascendenza.
In questo contesto uno dei compiti più rilevanti per salvare la politica e la democrazia, è la ricomposizione di un popolo inteso come unione morale di persone- cittadini unite da mutua fraternità e impegnate in un territorio in vista della realizzazione del bene comune. La democrazia viene rigenerata se si rigenerano i popoli. Diveniamo più capaci di generare il sociale quando siamo ‘più che umani’.
Ne va della convivenza civile, ma ne va anche dell’essere cristiani, luce nella città. Quel “noi” di popolo rigeneratore ha bisogno infatti dell’alimento del “noi” del popolo di Dio in cammino nella storia; e lo stesso popolo di Dio ha bisogno dell’esperienza della cittadinanza per divenire veramente popolo.
Il relatore ha poi proposto segni di speranza: in base a molteplici esperienze fatte, rigenerare il sociale è possibile. Esempi in tal senso si possono vedere nel potenziamento delle banche etiche ed ora con la riforma del terzo settore. Il mondo economico offre esempi di imprese organizzate secondo il principio di fraternità, di ONG e ONLUS, di banche del tempo. Questo va di pari passo con forme di personalizzazione di servizi educativi e di welfare che rivalutano l’importanza di costruire relazioni umane.
Altrettanto interessante l’esperienza delle social street, capace di rompere l’estraneità e l’anonimato con attenzioni di buon vicinato e di cura del territorio. Da ricordare anche la nascita di un’architettura relazionale valutata non solo per le prestazioni funzionali, ma soprattutto per come promuove socialità, legami di prossimità tra le famiglie e con la comunità circostante.
Lo stesso Papa Francesco nella Laudato si’ nota: “Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!” (152).
Concludendo – ha sottolineato Mons. Toso – per mantenere una relazionalità umana e umanizzante, occorre superare le derive post-moderne e post-umane e affermare una relazionalità generativa del sociale, vissuta all’insegna della reciprocità e del mutuo potenziamento d’essere, facendo sorgere una nuova cultura della relazione umana e delle reti sociali (cfr CV 53-55).
A tal fine è necessaria una nuova evangelizzazione che alimenti l’archetipo della relazione che è in Dio, sulla cui immagine siamo stati chiamati a conformare le relazioni interpersonali e con l’ambiente. E, di conseguenza, un nuovo umanesimo che si compatti in un nuovo movimento culturale e sociale, omogeneo con una relazionalità secondo l’ispirazione cristiana.
ABITA LA TERRA E VIVI CON FEDE
La seconda giornata del Convegno, dedicata all’ “abitare il territorio” ha avuto come orizzonte spirituale l’intensa riflessione di S.E. Mons. Lauro Tisi, Arcivescovo di Trento, che ha esordito riprendendo una citazione di Ermes Ronchi del racconto rabbinico in cui si dice che Dio in principio ha creato il punto di domanda. La grande sfida sul fronte dell’abitare la terra è quella di porsi sempre dei punti di domanda anziché lasciarsi dominare, come avviene ai nostri giorni, dai punti esclamativi, dalle affermazioni.
In un sistema di vita in cui le parole fluiscono ininterrottamente, senza soluzione di continuità, per porsi delle domande innanzitutto occorre fare silenzio. Senza silenzio non ci sono domande e non c’è vita abitata. Senza domande non c’è nemmeno la fede. La fede cristiana fa sprofondare nelle stanze del silenzio, ha necessità del silenzio e della realtà che pone domande.
Un modo per lasciarsi porre delle domande è frequentare il creato. Entrare nel creato con momenti di silenzio è terapeutico a far sorgere domande e a farci percepire come appartenenti a una realtà trascendente.
Il narcisismo, oggi così diffuso, ci fa percepire invece una realtà che comincia con noi e finisce con noi. Al contrario, per percepire che cos’è l’umano, è fondamentale sentirsi in una realtà che ci supera e in cui si è chiamati a rispondere. È percepirsi in modo responsoriale.
La chiave interpretativa della Laudato si’ è l’aver collegato l’antropologia all’ecologia, perché essere uomini ed abitare la terra con fede significa avere imparato la lezione di umanità di Cristo. La fede è fare come ha fatto Cristo. Credere è lo stesso che abitare, ha asserito Mons. Tisi.
Noi proveniamo da una declinazione della fede che risente del moralismo fondato sul “tu devi”. Dobbiamo smettere di declinare la fede come istanza etica e capire che ciò che importa è collegare l’istanza etica alla dimensione della bellezza. Così ha fatto S. Francesco che ha composto cantici di bellezza, non di dovere. Tutti i percorsi dei testimoni della fede narrano l’umanità affascinante di Cristo.
Attraverso la via dello stupore, nel Dio disadorno e feriale capiamo la storia, ci lasciamo graffiare dal volto dell’altro. Solo chi si lascia provocare dalla realtà, nella fatica e nell’esperienza, si umanizza.
Come seconda osservazione il Presule trentino ha sottolineato che l’umano cerca il noi come abitazione naturale. Vivere è camminare con, è ragionare con, è lavorare con…, ma il “con” va inteso come bellezza e va collegato alla dimensione del non giudicare, come ha fatto Gesù. Bisogna percepire che la realtà è sempre un po’ più in là di noi, che la relazione con una persona non può essere chiusa in una sentenza.
Infine c’è la dimensione del servire che è una dimensione di bellezza. Il volontariato ci dice che servire è bellezza. C’è qualcosa di grandioso nella dedizione. È un’istanza dell’uomo che sente il servire come un regnare. Gesù ha fiducia che ogni uomo abbia un pezzo di vita da regalare. In tal senso siamo tutti dei frammenti. È una grandezza essere frammento, mentre è una desolazione essere il tutto. Il tutto è la morte. L’idea del frammento, invece, richiama il mosaico, l’interazione, la comunione.
ABITARE IL TERRITORIO
La Tavola rotonda su “Abitare il territorio” è stata aperta da uno stralcio dei documentari della Fondazione Dolomiti Unesco, firmati da Piero Badaloni, sull’importanza delle ”Regole”, come espressioni del sistema plurisecolare proprio di questi territori per la tutela delle proprietà collettive.
Il Sindaco Maria Bosin ha fatto riferimento alla Regola Feudale di Predazzo e alla Magnifica Comunità di Fiemme che rappresentano un “felice modo di possedere”, poiché per tutelare i beni dell’ambiente a favore di tutti è necessaria una gestione condivisa. Un modo di possedere dunque particolarmente interessante per l’oggi, in ordine ad uno sviluppo sostenibile e inclusivo.
In questo senso possiamo leggere anche l’impegno dell’accoglienza degli immigrati, che da parte del Comune di Predazzo è stato all’origine di domande su come poterli inserire nella comunità locale e non semplicemente ospitarli pensando solo alla loro sopravvivenza.
Ci è stato chiesto – ha detto il Sindaco – di occuparci di persone che non appartengono alla nostra comunità. È stato importante sentire che molte persone abbiano avuto voglia di pensare, di condividere, di provare ad immedesimarsi. È importante non lasciarsi deviare da chi pensa che in questo difficile momento dobbiamo pensare a noi stessi e non impegnarci nella cosa pubblica e nel bene comune.
Occorre pensare che impegnandosi per il bene comune si possano trovare le soluzioni anche per i propri problemi. In fondo questa crisi proviene dall’aver pensato che convenga occuparsi del proprio!
Marcella Morandini, Direttore della Fondazione Dolomiti Unesco, ha esposto l’esperimento di gestione trasversale delle Dolomiti che è uno dei duecento beni naturali riconosciuti dall’Unesco per l’importanza geologica (consente una lettura unica al mondo dell’evoluzione del triassico) e per la bellezza estetica, valori universali per l’umanità intera.
Bisogna fare in modo che questo patrimonio si conservi attraverso strumenti di gestione che consentano di trasmetterlo integro alle generazioni future. Unesco non dà nessun vincolo, nessuna regola, nessun finanziamento, ma dà la possibilità di essere inclusi nella lista eccezionale a livello mondiale, e la scelta di rimanerci è tutta delle amministrazioni e delle comunità che vi risiedono.
Però è necessario dimostrare di avere una strategia complessiva di gestione. Le Dolomiti costituiscono un sito molto complicato da gestire, poiché è molto esteso: spazia su cinque province molto diverse tra loro, nove isole, sette assessori, tre regioni.
È necessario un esercizio civile complicato e impegnativo che sta facendo maturare una cultura della collaborazione ai diversi livelli che non avremmo la possibilità di testare se non ci fosse il riconoscimento Unesco.
Infine Don Rodolfo Pizzolli, delegato della diocesi di Trento per i problemi sociali e del lavoro, ha evidenziato che l’impegno per la custodia del creato trova le sue radici nel senso di comunità e dell’universalità dei beni su cui si fonda la millenaria esperienza della Chiesa. In particolare si possono ricordare il carisma benedettino col suo impegno per abitare la terra e il carisma francescano che si è impegnato per rendere la città abitabile.
Nel Trentino abbiamo visto l’esperienza delle Regole. Di particolare interesse a questo riguardo è l’influenza delle Pievi, istituzioni religiose, nate per dare sviluppo a questo territorio che si è trovato ad affrontare particolari difficoltà dovute alle invasioni barbariche in una Europa nata dalle ceneri dell’impero romano. In questa regione inoltre c’è sempre stato l’influsso del mondo austriaco che fin dal 1773 ha stabilito che tutti i sudditi dell’impero dovessero avere un’istruzione minima e per realizzare il progetto fu coinvolto anche il clero.
Il cristianesimo si è sempre occupato dell’abitare la terra, dell’abitare la città perché fosse la persona soggetto di questa azione. La diocesi di Trento negli anni Cinquanta ha fondato la scuola di preparazione sociale. In questi ultimi anni ha elaborato alcune iniziative: ha denunciato la cementificazione del Trentino, ha contribuito a costruire la rete interdiocesana (81 diocesi di tutta Italia) “nuovi stili di vita”, ha aderito all’iniziativa della diocesi di Innsbruck del “digiuno dalle auto”.
La diocesi sta assumendo attraverso scelte concrete l’attenzione al creato, ma soprattutto cerca di creare il senso di comunità, poiché abitare il territorio vuol dire sentire di farne parte mettendo a disposizione le proprie competenze, le proprie attenzioni. È importante dialogare col volontariato, col mondo della cultura e della politica, dell’economia, poiché oggi è indispensabile abitare la città per sentirsi persone.
ABITARE LE RELAZIONI: LA FAMIGLIA CUORE DELLA RELAZIONALITÀ
Nella terza giornata, nell’affrontare il tema della famiglia, cuore della relazionalità, Don Massimo Serretti (docente di teologia dogmatica, Pontificia Università Lateranense) ha collegato l’ecologia all’antropologia affermando che la terra più affascinante è la realtà stessa dell’uomo per il quale anche le bellezze della natura sono state disegnate, pensate, volute e create. Citando il primo racconto del Genesi, che suddivide in sei giorni il lavoro di Dio nella creazione, il relatore ha messo in evidenza che la creazione dell’uomo e della donna è posta al termine dell’opera di Dio.
Questo fatto è di grande rilievo perché significa che è l’opera più grande.
L’essere fatti a immagine e somiglianza di un Dio che non è individuo assoluto, ma è una comunione di persone, sta a significare che l’uomo e la donna sono fatti secondo la comunione delle persone che Dio stesso è. Qui c’è una relazione d’origine, costitutiva. Tutte le altre relazioni sono costruttive o distruttive dell’umanità che è nell’uomo e nella donna a seconda del corrispondere o del disattendere e rifiutare la relazione primaria.
Il relazionarsi reciproco dell’uomo e della donna viene ad avere un suo di più di gioiosità, di bellezza, di attrazione quanto più corrisponde a ciò che il Creatore ha voluto e fatto. Inoltre – ha osservato Don Serretti – l’opera di creare l’uomo e la donna avviene nel sesto giorno che è il giorno più vicino al settimo giorno del riposo di Dio, ovvero al fine verso il quale sono orientate tutte le creature umane.
È l’unità stessa dell’uomo e della donna ad essere immagine di Dio e la loro unità è fatta per la trascendenza. Da questo punto di vista la relazione dell’uomo e della donna è quella più prossima alla realtà del mistero di Dio.
L’unità dell’uomo e della donna trae beneficio dalla contemplazione del creato, che apre alla trascendenza. La perfezione di unità intuita tra l’uomo e la donna ha come origine il sesto giorno e come destino il settimo.
È qualcosa che è molto più grande di loro. È la chiave di volta di tutto il creato, poiché la creazione, senza la verità dell’uomo e della donna, cade e perde significato. Questa è la chiave di lettura maggiore di tutto il dramma della società di oggi.
Per parlare di relazione abbiamo bisogno di due termini che prima esistono e poi si relazionano. Ma c’è anche un tipo di relazione che ci fa essere ciò che siamo. È la cosiddetta relazione d’origine, che ha un potenziale enorme rispetto al primo tipo. La paternità, la maternità, la figliolanza sono termini che dicono una relazione d’origine. La realtà familiare ha la caratteristica di poter originare, di poter generare, di poter far venire ad essere quello che non c’era.
La relazione di figliolanza è fondamentale e tutte le altre relazioni saranno stabilite a partire da essa e si innescano su essa. La rendono dinamica, attiva, evidente, sperimentabile. Tutta la vita è uno stare in relazione, ma le relazioni più significative sono quelle che sono arrivate a toccare il punto della nostra origine e che ci hanno costituito da dentro. Per questo la questione dell’abitare le relazioni significa guardare con occhio privilegiato la realtà della famiglia.
La terza giornata si è conclusa con uno spazio di attenzione all’“Abitare la rete” con la comunicazione di Letizia Atti (educatrice multimediale e psicopedagogista) “Vite interconnesse: le relazioni tra l’online e l’offline”. Se la rete incide già sul modo di comunicare e di relazionarci di noi adulti, proviamo a pensare quanto incide sulle nuove generazioni per le quali la rete è ormai diventato uno strumento di quotidianità.
La crescita e la formazione dell’identità degli adolescenti e preadolescenti avviene anche attraverso la rete. Perciò – ha affermato la relatrice – bisogna aiutare i ragazzi a riflettere sul ruolo che le nuove tecnologie hanno nella loro vita: esse comportano nuove opportunità ma anche molti rischi.
C’è il pericolo di crearsi un mondo chiuso che viene scambiato per universale e vero. Ciò che facciamo in internet sembra avere la stessa importanza di quello che succede quando siamo disconnessi. In internet i ragazzi si sentono più disinibiti e liberi di esporsi, di raccontare anche la propria intimità, protetti da uno schermo e dall’illusione dell’anonimato, ma tutto questo nei fatti facilmente degenera nel fenomeno del cyberbullismo di cui stiamo scoprendo di giorno in giorno gli effetti devastanti.
Il mondo adulto – ha concluso la relatrice – deve avere il coraggio di accettare questa sfida educativa confrontandosi con i ragazzi stessi, perché se è vero che loro hanno doti quasi innate nell’uso del digitale, è anche vero che noi adulti abbiamo l’esperienza e la maturità per capire le situazioni e per consigliare al meglio i nostri figli, anche su questioni che avvengono in un mondo virtuale. Il dialogo e l’ascolto sono elementi fondamentali se si vuole arrivare ad abitare la rete in maniera positiva e costruire rapporti di senso anche online.
ABITARE LA TERRA. QUALE ETICA PER ABITARE LA CASA COMUNE?
L’ultimo giorno è stato aperto dalla comunicazione della pedagogista Edes Guerrini sul tema “Abitare o inabitare? Spunti di riflessione a partire dalla Laudato si’”.
Oggi l’impero dell’ego – ha evidenziato la relatrice – si è sviluppato a tal punto da cancellare la radice divina e siamo più che mai chiamati a recuperare le nostre radici spirituali, il nostro cuore. Tutta la creazione ha questo destino di salvezza ma chi deve portarlo avanti è l’uomo perché egli è posto come custode e coltivatore.
Siamo chiamati a farlo come S. Francesco nel rispetto che non nasce dalla paura, ma dall’amore profondo verso Dio, che ha preso dimora in me, inabita in noi ed è presente in tutte le creature. La realizzazione della casa allora è realizzare lo spirito in ogni materia e questo esige una relazione dinamica: unire cielo e terra.
Don Marco Cagol (Direttore PSL diocesi di Padova) ha proposto chiavi di lettura della realtà che possano aiutare a fare scelte di campo per costruire un mondo che corrisponda alle istanze evangeliche. È partito evocando la parola “abitare”, uno dei cinque verbi studiati dal Convegno Ecclesiale Nazionale di Firenze.
In questo verbo è presente una grande densità spirituale ed etica, poiché ci rimanda alla cura, all’attenzione, alla custodia, all’habitus e quindi alle virtù. È un verbo che la Scrittura attribuisce a Dio che viene ad abitare la terra per amore, per darle la vita, per salvarci. Il suo abitare diviene reciproco: “Chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui” (1 Gv 4). Anche per l’uomo l’abitare è una dimensione dell’amare.
Ma l’abitare non è l’unico modo di stare dentro una realtà. Ci sono verbi che hanno sfumature negative e che ci dicono l’opposto: occupare, invadere, sfruttare, passare e perciò considerare il luogo come qualcosa di strumentale. Il verbo abitare ci indirizza verso scelte etiche, secondo criteri di giustizia, di rispetto, di riconoscimento, di reciprocità e di sobrietà. Non tutti i luoghi sono abitabili, perché l’essere umano ha esigenze imprescindibili fisiche e spirituali, tant’è che l’uomo ha sempre dovuto adattare i luoghi in cui abitare, anche se è caduto nel paradosso di rendere più inabitabili i luoghi in cui abita.
Oggi è imperante la dinamica del mare! Per esempio il mondo digitale, la tecnica sono come il mare liquido che livella tutto cambiando il nostro paradigma mentale e conoscitivo e ci rende funzionali ad un sistema. Anche la finanza speculativa è come il mare, che sposta capitali da un luogo all’altro come se la terra fosse un’unica grande piattaforma sulla quale è irrilevante dove sono le cose. Un altro mare è la comunicazione globale dove tutto è contemporaneo, allo stesso modo vicino e lontano. Questo porta all’atomizzazione e all’astoricità delle relazioni dove ciascuno può essere in tutti i luoghi e in nessun luogo, perdendo così il senso della fisicità della terra.
In questo mare gli uomini fluttuano, migrano senza meta e senza patria. Nulla emerge come solido. Vengono accettati solo individui isolati, viventi in territori anonimi, perfettamente interscambiabili, senza nessuna identità e storia, senza nessuna comunità di senso. I territori rischiano di essere solo dei corridoi di transito di merci, di strade, di ferrovie, di linee cablate. Il sociologo Magatti parla di astrazione, di frammentazione, di assenza di volti, di un mondo piatto, indifferente alle domande di senso e di appartenenza, semplice palcoscenico per infinite possibilità di azioni individuali da parte di atomi isolati, neutri, autonomi, organizzati da sistemi estesi e performanti, che si incontrano occasionalmente per uno scambio di interesse o un godimento reciproco.
La metafora del mare mette in evidenza che il punto di partenza per un’etica è la necessità di ridare una forma solida a ciò che viviamo. È l’uomo che deve dare senso alla storia e non i meccanismi impersonali e liquidi. È necessario dare consistenza a terre solide che siano spazio umano. La metafora del mare non induce al localismo, ma ci chiede di orientare la nostra azione a far emergere e a rivitalizzare la comunità, i territori, le storie, i legami… cioè la terra solida.
Il comune designa una relazionalità densa, un’uscita dal sé individuale, una dipendenza di sé dall’altro, un recupero della dimensione personalistica che percepisce l’uomo come essere relazionale. L’etica di cui abbiamo bisogno è relazionale e fondata su una origine comune.
Invece la modernità, per risolvere lo scandalo delle guerre di religione, si è costruita come se Dio non esistesse. Benedetto XVI ha proposto anche ai non credenti di provare a prendere per vera l’ipotesi di avere un Padre comune, di avere una chiamata comune per costruire la società. Oggi c’è lo spazio per una tale proposta anche ai non credenti. Noi cristiani non dobbiamo avere paura di far valere anche sul piano culturale l’idea di un’origine comune, di un destino comune e di una chiamata comune.Tale idea può avere una valenza per la costruzione di un’etica condivisa.
La Fondazione Lanza sta riflettendo sull’idea della civitas per costruire un tessuto etico comune. Un’etica civile ci fa recuperare il bene dell’essere insieme, il legame sociale positivo.
Oggi le minacce a questo recupero sono molteplici:
– l’aumento del pluralismo etico e culturale quando sfocia in una mera tolleranza non dialogica;
– la sostituzione delle culture (cattolica e marxista), accomunate da un forte universalismo etico, con la sub-cultura, distratta sui valori etici, per la quale la solidarietà è a corto raggio;
– la tendenza alla smemoratezza che appiattisce tutto nel presente lasciando nell’oblio ciò che consentirebbe di cogliere gli elementi comuni;
– il ricorso al giuridico per questioni che si potrebbero risolvere, cosicché si richiede sempre l’intervento degli specialisti e le persone vengono escluse;
– l’inadeguatezza della istituzioni locali e nazionali su questioni che hanno una dimensione trans-nazionale. Per la ricostruzione di questa idea del comune occorre recuperare la categoria della casa comune e dunque l’idea di popolo, l’importanza di essere cittadini e di essere popolo. Il popolo rimanda alla questione decisiva: la questione del senso del vivere insieme, su cui siamo interpellati come cristiani a fare la nostra parte.
CONCLUSIONI Abbiamo avuto stimoli molto importanti per leggere le sfide del tempo presente – ha affermato nelle conclusioni A. Passoni – ma soprattutto attraverso le parole dei relatori abbiamo avvertito ciò che è fondamentale e urgente: la necessità di ritornare a recuperare le radici, ritornare alla relazione costitutiva dell’umano per ritrovare il senso dell’abitare e dunque recuperare la bellezza di quello statuto creaturale voluto per la nostra felicità (Don Serretti, Mons. Toso).
È stata suscitata in noi la responsabilità dell’abitare oggi. Si tratta di rispondere, in senso responsoriale (Mons. Tisi). Rispondere al dono riconoscendo il dono ricevuto ed amministrandolo a partire dalla quotidianità della nostra vita, imparando a farlo per il bene di tutti.
Riscoprire la bellezza, la dignità (E. Guerrini) che è propria dell’umano e di questa responsabilità, capace di rigenerare la nostra vita, ma anche di contribuire a salvare dalla desertificazione la terra. Non possiamo sottrarre questo supplemento d’anima che la fede può offrire (Don Cagol). Siamo chiamati a restituire e a condividere quanto abbiamo ricevuto, aperti all’incontro con ogni altro uomo e donna del pianeta.
Siamo chiamati a farlo con tutta la speranza e la fiducia che in questo non siamo soli. È stato ricordato il discorso del “con” come percorso d’anima. Il primo “con”, il più fecondo, è proprio il portare con Cristo le sorti del mondo: un concompiere con Cristo che è venuto a dimorare in mezzo a noi perché noi potessimo partecipare pienamente al suo progetto creaturale. Il “con” come percorso d’anima ci porta così ad un crescere “con”, alla concretezza del “con-crescere” nella concretezza della comunità, comunità ecclesiale e comunità civile.
Un “noi” dunque da costruire con perseveranza; non un “noi” massa delle società impersonali, neppure un “noi” meramente etnico o contrattuale, ma un “noi” unito dall’amore reciproco, dalla comune appartenenza, che spinge a realizzare il bene di tutti nello spazio e nel tempo (Mons. Toso). La costruzione del “noi” per un nuovo ethos civile (Don Cagol).
Una ritessitura chiamata a rendere sempre più generativa la comunità ecclesiale.
A volte ci sentiamo molto piccoli, nell’impossibilità di fare qualcosa, mentre dal punto di vista spirituale possiamo offrire moltissimo anche come “contro ambienti”, ambienti che spezzano l’anonimato, in cui discernere alla luce della parola, in cui formarsi insieme e custodirsi dal “mare liquido” (Don Cagol), progettando sempre più luoghi ponte, in cui siano possibili la cultura dell’incontro e del dialogo per costruire quella civitas da cui dipende la civiltà, la qualità del nostro abitare, la qualità della cittadinanza globale.
È veramente un grande lavoro affidato anche alle nostre mani. Tutto il Convegno costituisce un dono prezioso, apertura di impegno sull’ulteriore strada da percorrere per abitare la terra in un atteggiamento di benedizione e di lode.
La via dell’abitare ci immette così decisamente sul piano di quella “chiesa in uscita” indicata dalla Evangelii Gaudium, che come laici siamo interpellati a vivere nella interazione continua con la realtà sociale e civile. È il lascito del Convegno Ecclesiale Nazionale di Firenze da far crescere nella comunione e nella gioia del metterci in stato di risposta.
Gli Atti del Convegno “Abitare la terra. Abitare la città” sono in pubblicazione.
Si possono richiedere alle Edizioni Frate Jacopa info@coopfratejacopa.it.