Simona Beretta *
Nel Dizionario della Dottrina sociale della Chiesa, Simona Beretta spiega l’importanza di avere il coraggio di elaborare e condividere un linguaggio di pace, attenta alla prospettiva delle vittime.
Sessant’anni dopo la Pacem in terris, la voce del Papa si alza ancora ripetutamente contro la guerra: ogni guerra e in particolare la guerra che colpisce la “martoriata Ucraina”. Una guerra fra popoli fratelli, uniti alla radice dal battesimo nel fiume Dnepr e oggi legati da una densa rete di famiglie miste e di famiglie divise da un confine ormai invalicabile. Il libro di Papa Francesco “Contro la guerra” (Libreria Editrice Vaticana, 2022), che raccoglie molti insegnamenti papali su pace e disarmo, porta due sottotitoli: “Il coraggio di costruire la pace” nella versione italiana, “Building a culture of peace” nella versione inglese.
Cultura e coraggio sono due parole che indicano con precisione la nostra chiamata a costruire la pace in un mondo di guerra: da un lato a un pensiero coraggioso, dall’altro all’azione ardita capace di dare ragione della propria speranza.
“No alla guerra” non è un messaggio irrealistico o inattuabile; al contrario, uno sguardo al XX secolo conferma che il realismo sta dalla parte degli operatori di pace. Nel 1917, Benedetto XV chiedeva il condono completo e reciproco dei danni di guerra dopo la “inutile strage” non ricevendo alcuna udienza tra i belligeranti; eppure proprio il condono e il sostegno alla ricostruzione degli ex-nemici sarà la scelta, pragmatica e lungimirante, del post-seconda guerra mondiale. I frutti di una cultura di pace si vedono: nazionalismi e depressione tra le due guerre mondiali, apertura e integrazione dopo la seconda. Creare le condizioni di pace è difficile, come la comunità internazionale ha imparato dalle operazioni di pacificazione e dai loro frequenti fallimenti: occorre un paziente lavoro educativo per sradicare le diffidenze e costruire una cultura di rispetto reciproco (“Brahimi Report” sul peacekeeping, Nazioni Unite, 2000).
Perché la guerra si nutre di cattiva cultura: interpretazioni ideologiche della realtà, narrazioni settarie, discorsi di odio, polarizzazione, che non si possono smantellare con la forza. Sono indispensabili occasioni di incontro “disarmato”.
Anche in Europa, abbiamo visto che l’escalation militare si nutre di escalation verbale, in un circuito vizioso dal quale sembra impossibile sfuggire. Specie a scuola e all’università, siamo chiamati al coraggio di elaborare e condividere un linguaggio di pace, una narrazione umile del passato, basata sull’evidenza, libera da pregiudizi, attenta alla prospettiva delle vittime, capace di porsi domande e di ascoltare empaticamente.
* Docente di Politiche economiche internazionali;
Direttrice del Centro di Ateneo per la dottrina
sociale della Chiesa
Il Cantico
ISSN1974-2339
Pubblicazione riservata