LE CIFRE DEL RAPPORTO UNDP 2014
albaneseIl mondo contemporaneo è caratterizzato da estreme disuguaglianze che evidenziano un egoismo senza confini. Questo, in sostanza, si traduce in una veemente esclusione sociale tra Paesi ricchi e Paesi poveri e all’interno di entrambi. Le cifre diffuse recentemente dal Rapporto dell’Undp sullo sviluppo umano 2014 sono allarmanti ed esigono un serio discernimento da parte di tutti, credenti e non credenti. Ignorarle o sottacerle è esecrabile e peccaminoso.
Circa 2,7 miliardi di persone, più di un terzo della popolazione mondiale, vivono nella povertà o al limite dell’indigenza. Tra queste, 1,2 miliardi soffrono regolarmente la fame, sopravvivendo con meno di 1,25 dollari al giorno (meno di 1 euro), mentre altre 1,5 miliardi, in 91 Paesi, vivono in uno stato di povertà evidenziata da gravi carenze nella sanità, nell’educazione, nel livello di vita (Undp, indice della povertà multidimensionale).
Ogni cinque secondi muore un bambino per malnutrizione. La nostra civiltà, quella occidentale, ha indubbiamente favorito il progresso dal punto di vista della ricerca e tecnologico, promuovendo una cultura legalitaria incentrata sul rispetto dei diritti inalienabili della persona.
Al contempo, però, l’indirizzo impresso dal cosiddetto “Primo Mondo” è, paradossalmente, sempre più segnato da incoerenze e contraddizioni. Col risultato che quei principi e valori universali rimangono normalmente circoscritti al nostro benessere e ai nostri interessi di parte, a difesa delle nostre chiusure culturali e paure di cambiamento, piegando perfino il diritto internazionale alle convenienze del momento, coprendo e sostenendo dittature sulla base della loro utilità politica.
Non vi è più alcun dubbio che qualche correzione andrebbe fatta, senza aspettare oltre, se non vogliamo continuare ad assistere passivamente ad una graduale implosione della nostra civiltà. Il fatto stesso che l’attuale finanziarizzazione dell’economia abbia consentito ad 85 persone nel mondo di detenere la ricchezza posseduta da 3 miliardi e mezzo di persone, la dice lunga. In questo contesto, il tema dell’alimentazione e la lotta contro la fame devono rappresentare una priorità nell’agenda dei governi.

IL PARADOSSO DELLA FAME
Non è ammissibile, ad esempio, che ogni anno la fascia Saheliana e il Corno d’Africa vengano colpite da gravissime carestie che penalizzano milioni di persone, soprattutto donne, vecchi e bambini.
Eppure, nel nostro pianeta, da quando esiste, non c’è mai stato così tanto cibo. In termini strettamente quantitativi, vi sono derrate alimentari per sfamare a sufficienza l’intera popolazione mondiale di oltre 7 miliardi di persone.
Non solo. Se le materie prime alimentari fossero messe sul mercato rispettando il principio dell’equità, si potrebbero sfamare circa 14 miliardi di persone, pertanto vi sarebbe doppia razione per tutti. Eppure, una persona su 8 è affamata. Le ragioni che determinano questo aberrante scenario sono molteplici.
Com’è noto, si registra ogni anno un aumento dei disastri naturali, come le inondazioni, le tempeste tropicali e i lunghi periodi di siccità, con gravissime conseguenze per la sicurezza alimentare di vasti settori della popolazione mondiale. La siccità è oggigiorno la causa più comune della mancanza di cibo nel mondo. Come se non bastasse, dal 1992, la percentuale delle crisi alimentari causate dall’uomo, di breve o lunga durata, è più che raddoppiata, passando dal 15 al 35 per cento e molto spesso sono i conflitti ad esserne la causa scatenante.
Si tratta di guerre, tra l’altro, molto spesso generate da interessi stranieri per il controllo delle commodities, vale a dire le materie prime presenti nei Paesi in via di sviluppo, fonti energetiche in primis. Dall’Asia all’Africa all’America Latina, i conflitti costringono milioni di persone ad abbandonare le proprie case e causando tra le peggiori emergenze alimentari globali.

SULLA FAME NON SI SPECULA
E cosa dire delle speculazioni finanziarie legate alla compravendita di fondi di investimento? Si tratta di futures sui prodotti agricoli che non vengono più solo acquistati da chi ha un interesse diretto in quel determinato mercato seguendo le tradizionali leggi della domanda e dell’offerta, ma anche di soggetti finanziari come i fondi pensione, che investono grandi somme di denaro con l’obiettivo esclusivo di ottenere il miglior rendimento. Ecco che allora alla cosiddetta batosta climatica, che com’è noto interessa ciclicamente alcune aree estremamente produttive del pianeta, si aggiungono i meccanismi perversi di un sistema finanziario che sta avendo ricadute drammatiche sulle popolazioni africane.alb
Parliamo di Paesi in cui la gente destina più dell’80% del proprio reddito al fabbisogno alimentare e che nell’attuale congiuntura non sono assolutamente in grado di far fronte all’aumento dei prezzi del cibo. Da diverso tempo, in alcuni circoli occidentali, per far fronte a queste emergenze alimentari si sta sempre più consolidando la vecchia tesi dell’economista inglese Thomas Malthus, fondatore della scienza demografica, secondo cui il tasso di crescita della popolazione umana, essendo esponenziale, avrebbe presto superato quello della produzione alimentare che segue una legge lineare di sviluppo. Nel suo saggio sul principio della popolazione del 1798, Malthus spiega che la popolazione tenderà a espandersi consumando tutto il cibo disponibile senza lasciare alcuna eccedenza a meno che la crescita demografica non venga interrotta da guerre, carestie o pandemie.
Se si trattasse di una valutazione solo economica, il suo ragionamento non farebbe una piega; ma il criterio di giudizio non può prescindere dal fenomeno sociologico che bene o male ha riguardato nel passato il nostro Paese, l’Italia appunto. Le famiglie numerose si sono assottigliate perché la società dei consumi ha reso la vita più comoda e offerto una serie di garanzie che all’inizio del ‘900 erano considerate unanimemente utopistiche.
L’innalzamento della classe operaia, dal punto di vista retributivo, anche attraverso l’azione sindacale, ha innescato maggiore oculatezza nella gestione del denaro e le donne hanno gradualmente abbandonato il ruolo di casalinghe a tempo pieno. In molti Paesi africani la situazione è ben diversa. Anzitutto perché la vita media è ancora molto bassa rispetto ai Paesi industrializzati e fare figli significa garantirsi l’assistenza durante la vecchiaia, visto e considerato che non esistono sistemi previdenziali degni di questo nome.

OGM: RISPOSTA FUORDIANTE AL PROBLEMA DELLA FAME
Un’altra risposta, davvero fuorviante al problema della fame è quella dell’utilizzo degli Organismi geneticamente modificati (Ogm) sostenuta da alcuni governi come quello di Washington. Al di là del pur lecito principio cautelativo – che, se applicato, dovrebbe valere per tutti, ricchi e poveri – gli Ogm sono espressione di una cultura mercantile che guarda solo e unicamente al guadagno.
Il vero problema è rappresentato dal diritto di proprietà sulle sementi Ogm, che indiscutibilmente, anche alla luce dei principi dell’etica sociale della Chiesa Cattolica, non farebbe che acuire la dipendenza dei Paesi poveri dai Paesi ricchi. La distribuzione di sementi Ogm, nelle aree di emergenza, determinerebbe infatti la mercificazione della solidarietà, trattandosi di prodotti brevettati, peraltro non riproducibili. In altre parole, il vero rischio, spesso sottaciuto dalla grande stampa, è che i prodotti Ogm possano determinare paradossalmente una maggiore insicurezza alimentare essendo brevettati ai sensi delle leggi sui diritti di proprietà intellettuale.
I contadini a questo punto dovranno comprare sementi ogni anno e sarà reato ripiantarle. Insomma, sugli Ogm è in atto uno scontro commerciale di proporzioni gigantesche, con forti risvolti politici. Da questo punto vista, allora, bisognerebbe davvero andare al di là della solita diatriba tra ambientalisti e paladini del biotech, tenendo presente che il cibo è innanzitutto e soprattutto un diritto tanto quanto l’acqua, la salute o la fissa dimora. Tutti argomenti questi importantissimi che non possono lasciarci indifferenti rispetto alle istanze del bene comune.

SARÀ MAI POSSIBILE TROVARE UNA SOLUZIONE?
A questo punto, viene spontaneo chiedersi: sarà mai possibile trovare una soluzione? Secondo i nostri missionari e la stragrande maggioranza delle organizzazioni non governative, nel corso degli ultimi anni i nostri governi, indipendentemente dalla loro ispirazione ideologica, hanno di fatto ignorato gli obiettivi per il Millennio stabiliti dall’Onu. Le accuse sono chiare e ben documentate: carenza di fondi, assenza di una strategia politica della cooperazione, scarsa efficienza della macchina burocratica e del sistema di monitoraggio degli aiuti. È stato anche rilevato un “deficit” etico, dato che la penalizzazione della cooperazione ha inevitabilmente comportato proprio la riduzione drastica del sostegno umanitario.
una sola famigliaEcco perché sarebbe ora che qualcuno nella “stanza dei bottoni” capisse che la macchina degli aiuti per far fronte alla crisi alimentare non può essere gestita come fosse un carrozzone delle buone intenzioni, dove tutto si riduce a organizzare vuoti convegni e seminari di studio. La questione non riguarda solo gli aiuti, ma anche la cancellazione del debito, il trasferimento di tecnologie nel Sud del mondo e, soprattutto, sia le nuove regole per i commerci che non penalizzino sistematicamente i Paesi poveri.
Impegni che non possono prescindere dall’elaborazione di un’ etica pubblica, la quale ripudi l’inaccettabile contabilità milionaria dei morti d’inedia nei bassifondi della Storia contemporanea. Sarebbe ora che maturasse la visione di un sistema globale di relazioni e di interdipendenze reciproche a cui non è affatto estranea la definizione di un’economia alternativa che possa scoraggiare gli speculatori.

ETICA PUBBLICA E ECONOMIA ALTERNATIVA
L’ideale sarebbe quello di creare un sistema a doppia economia, vale a dire su due binari. La prima legata al soddisfacimento dei bisogni fondamentali a gestione collettiva, fuori dagli attuali meccanismi speculativi dei mercati (e qui il riferimento è innanzitutto alle materie prime alimentari e alle fonti energetiche), mentre la seconda a conduzione privata, legata all’appagamento del superfluo.
Potrà sembrare utopistico, ma non v’è dubbio che a questo punto è urgente la definizione di un sistema alternativo, prima che sia troppo tardi. Possiamo dunque formulare concretamente delle proposte per affermare una sorta di governance solidale in grado di contrastare lo scandalo della fame?
Nel mondo delle imprese, da diverso tempo si parla della Responsabilità sociale d’impresa (Rsi), nella letteratura anglosassone corporate social responsibility (Csr). È l’ambito riguardante le implicazioni di natura etica all’interno della visione strategica d’impresa; una manifestazione, cioè, della volontà delle grandi, piccole e medie imprese di gestire efficacemente le problematiche d’impatto sociale ed etico al loro interno e nelle zone di attività.
La RSI è stata definita dal Libro Verde della Commissione Europea del 2001 come “un’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate. Essere socialmente responsabili significa non solo soddisfare pienamente gli obblighi giuridici applicabili, ma anche andare al di là, investendo nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate”. Ha origini culturali legate agli anni ’70 con la diffusione dei temi di responsabilità sociale in molti contesti. Oggi, in quasi tutto il mondo industrializzato si possono trovare luoghi, centri studio ed esperienze di RSI che ancor faticano di fronte a decenni di edonismo (massimo utile nel più breve termine) ed al disinteresse diffuso di ciò che accade con gli investimenti oltre mare.
La finanziarizzazione dell’economia è guidata da un solo principio: la massimizzazione del rendimento del capitale investito. Se gli investitori scoprono che una grande impresa forestale offre rendimenti pari o superiori al 15% sul capitale procederà all’acquisto di titoli di quell’impresa nonostante sia impegnata nella deforestazione dell’Amazzonia dalla quale tutti noi traiamo ossigeno. La Responsabilità sociale d’impresa, ancora oggi su base volontaristica, vorrebbe porre un freno a questa deregulation. È ormai collaudato il dibattito sulle reali intenzioni delle imprese che adottano un bilancio sociale, un codice etico, e più in generale si caricano ufficialmente di una responsabilità sociale.
Vi sono però alcuni aspetti deontologici che hanno immediate ricadute sulle conseguenze delle pratiche. Occorre essere consapevoli che, in campo etico, standard e codici sono armi a doppio taglio. Come scrive il sociologo polacco Zygmunt Bauman. “Essere morali significa sapere che le cose possono essere buone o cattive. Ma non significa sapere, né tanto meno sapere per certo, quali siano buone e quali cattive. […] Essere morali significa non sentirsi mai abbastanza buoni…”

IL SOCIAL BUSINESS
Se condividiamo l’idea che essere morali significa non sentirsi mai abbastanza buoni, è ovvio che non dobbiamo assolutizzare l’adozione di uno “standard etico” quasi fosse un toccasana ai problemi, anche perché, da solo, lo standard non basta. Ecco che allora è certamente strategico l’approccio di Muhammad Yunus, economista e banchiere bengalese, premio Nobel per la Pace e grande protagonista nelle campagne per lo sradicamento della povertà generata da inedia e pandemie.
Da tempo Yunus propone all’attenzione della comunità internazionale il cosiddetto Social business. Si tratta di un modello di azienda economicamente auto-sufficiente che vende sul mercato prodotti e/o servizi, proprio come tutte le aziende, ma a differenza di quelle tradizionali ha lo scopo non di massimizzare il profitto, ma di risolvere un problema sociale, gli azionisti non possono ricevere gli utili e i collaboratori sono retribuiti a prezzi di mercato.
Il modello è frutto dell’esperienza trentennale di Yunus con la Grameen Bank (con la quale ha vinto il Nobel per la pace) e di decine di altri social business che ha fondato. La diversità tra le nuove imprese con finalità sociali e le imprese tradizionali tese verso il massimo profitto risiede sostanzialmente negli obiettivi che entrambe si prefiggono: i nuovi tipi di imprese mirano sostanzialmente a produrre un mutamento positivo nella condizione sociale delle persone con cui entrano in contatto.
Queste imprese possono anche produrre un profitto, ma gli investitori che le finanziano dovranno solo tendere al recupero, in un periodo di tempo variabile, di un ammontare equivalente al capitale originariamente investito. Non si tratta quindi di organizzazioni no profit o non governative che fanno affidamento soprattutto su donazioni, aiuti governativi e contributi, ma di vere e proprie aziende che pur perseguendo un obiettivo sociale, devono anche, recuperare il capitale investito.
Quindi un’impresa con finalità sociali deve essere concepita e condotta come una vera e propria azienda, con prodotti, servizi, clienti e mercati, spese e ricavi, ma con l’imperativo del vantaggio sociale al posto di quello della massimizzazione dei profitti.
Invece di cercare di accumulare il livello più alto possibile di profitti finanziari a solo beneficio degli investitori, l’impresa con finalità sociali cerca di raggiungere un obiettivo sociale, sconfiggendo la povertà e nella fattispecie, la fame. Vi sono studi realizzati da autorevolissime scuole di economia che hanno dimostrato scientificamente come questo percorso indicato da Younus, non solo eviti l’accumulo spropositato di denaro, ma aumenti a dismisura la produttività e i profitti.

COMBATTERE LA FAME: UNA SFIDA CULTURALE
Una cosa è certa: per combattere la fame, la sfida non è solo sociale, politica ed economica, ma anche culturale. Pertanto, partendo dal diritto al cibo per tutti, a livello ecclesiale, guardando all’Expo di Milano, è importante fare tesoro della campagna “One Human Family. Food for All” lanciata da Papa Francesco e da Caritas Internationalis il 10 dicembre 2013.
Questa illuminata iniziativa intende promuovere un cambiamento nel modello di sviluppo a partire dagli stili di vita di ciascuno, con un impegno anche a livello politico affinché tutte le persone, in Italia, in Europa e nel mondo, abbiano accesso al bene comune costituito da un cibo sano, nutriente, giusto.
Un cibo prodotto secondo criteri di sostenibilità ambientale e di giustizia nel rispetto della dignità delle persone, contro un sistema fatto da strutture di peccato su cui abbiamo già discorso in questo dossier, che generano fame e spreco assieme, che speculano su un bene essenziale come il cibo, che generano violenza e guerra tra comunità.
Punto di forza dell’iniziativa è la dimensione locale dell’azione grazie al coinvolgimento di organismi, associazioni, gruppi e scuole che nei singoli territori si renderanno protagonisti di iniziative per approfondire la conoscenza delle questioni della fame e della crisi e per tradurla in impegno sociale e politico. D’altronde è ora di passare dalle parole ai fatti. Se la fame si nutrisse solo di chiacchiere, i poveri sarebbero già sazi.

Giulio Albanese