Lucia Baldo

Nelle Quattro Tempora celebrate fin dai primordi della Chiesa Apostolica e che segnano l’inizio delle quattro stagioni, si domanda al Creatore di benedire i frutti del raccolto o la semina che si sta per effettuare e lo si ringrazia per i doni della terra “la quale ne sustenta et governa” dice S. Francesco, vedendo nella “sora nostra matre terra” la figura di Dio Madre che ci nutre e ci dà vita.
Questi quattro tempi sono figura di un itinerario spirituale di crescita personale e comunitaria a cui possiamo dare il nome di conversione o penitenza, indispensabile per poter riconoscere nei frutti della terra i doni che Dio Madre ci elargisce sia in senso fisico che spirituale per alimentare in noi i germogli di una vita destinata ad essere piena ed eterna.
Questo cammino penitenziale o di conversione per compiersi richiede la mediazione della santità di una vita virtuosa. La parola “virtù”, dopo un periodo in cui fu svalutata in seguito al pensiero di Kant che l’aveva ridotta a una serie di doveri fini a se stessi, è tornata in auge negli anni ’30 del Novecento quando a questa parola fu restituito un senso nuovo derivante dal significato etimologico: da “vir” la parola “virtù” indica virilità, forza, valentia, valore. Nell’antichità i filosofi cercarono le virtù cardinali della prudenza, giustizia, fortezza, temperanza, e in questo risiede la loro sapienza, ma, dice S. Bonaventura, non seppero che esse non possono essere sostenute dalla sola ragione che non è in grado di far acquisire i meriti che portano alla beatitudine. “Ma questi meriti – per il pensatore francescano – non si possono acquisire con le forze del libero arbitrio”, ma solo “per la condiscendenza di Dio, cioè per la grazia” (Collatio VII in Hexaemeron). E così l’anima progredisce “per merito di Cristo, non in modo presuntuoso” (ivi). I filosofi ragionarono intorno alle virtù e non conobbero il medico, Cristo, “il Verbo incarnato, crocifisso, morto, il quale poi mandò lo Spirito Santo che penetra nei nostri cuori” (ivi). Per questo le virtù dei filosofi sono “informi e nude”, mentre quelle cristiane sono “vestite” con “l’oro dell’amore”.
Queste virtù “vestite”, per S. Bonaventura, sono “le armi della luce”, originate per la fede, sollevate per la speranza, e perfezionate per la carità” (ivi). La fede “risana l’anima e, una volta risanata, la purifica (rettifica), la “eleva” (ordina) e la rende “deiforme”. La fede risana “ponendo in Dio le radici dei meriti” e non attribuendo i meriti all’anima dell’uomo e alla sua ragione. La fede poi è congiunta alla “speranza certa” e alla carità. Sono queste le tre virtù teologali nelle quali trovano compimento di senso e pienezza le quattro virtù cardinali. Le tre virtù teologali unite alle quattro virtù cardinali formano il numero sette che è un numero sacro. Ma delle tre virtù teologali la virtù suprema è la carità.
In questa visione cristiana di S. Bonaventura emerge come le virtù vadano accolte come un dono di Dio e non come salvifiche in se stesse e non vadano ritenute una conquista dell’animo umano. Altrimenti esse divengono espressione di superbia e di vanagloria.
Allo stesso modo è salvifico il rapporto tra i frutti della terra e l’uomo, se quest’ultimo sa riconoscerli come doni del Creatore e, come tali, li ritiene degni di ogni rispetto e custodia. È invece devastante per le diverse manifestazioni della vita sulla terra, un rapporto con l’uomo che non le consideri un dono, ma un’opportunità di saccheggio e di devastazione secondo il proprio arbitrio.
Il cammino penitenziale di una vita virtuosa dovrà essere per S. Bonaventura “graduale” e scandito in tappe, per aiutarci ad apprendere nuovamente a ringraziare il Signore per i frutti della terra e per tutti i suoi doni e per aiutarci a sentirci investiti del difficile e delicato compito di custodirli rispettando il progetto originario del Creatore, senza volerci sostituire a Lui.

Il Cantico
ISSN 1974-2339
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