genderjpegNon c’è dubbio che l’ormai compiuta deriva antropologica, legata alla trasmutazione ideologica ad opera delle Gender Theories, secondo le quali anche il termine linguistico – “sesso” – finirà con lo scomparire nell’astratta e asettica omologazione del “genere”, nasconde sul fondo la paura ancestrale della differenza. Sin dagli albori della civiltà occidentale, infatti, è stato questo paradigma biologico e culturale a segnare lo spazio del conflitto, dell’emarginazione e della violenza. La paura del diverso ha segnato così modelli culturali ispirati al bisogno di recuperare le proprie certezze, annullando le pretese dell’altro. Anche la diversità sessuale, madre di tutte le differenze, invece di rappresentare una strategica risorsa antropologica, come molti hanno tentato di chiarire, si è tradizionalmente allineata alla linea oppositiva, diventando il simbolo del conflitto tra il più forte e la più debole, con tutto il carico di subordinazione femminile che questo ha comportato sul piano individuale e sociale. Anche quando, nel secondo ‘900, si è provato a costruire modelli teorici, centrati sulla “differenza sessuale” non si è riusciti che a proporre due mondi separati, portatori reciprocamente di due diversi pacchetti di valori: la disponibilità, la dolcezza e la cura per la donna, la forza, l’organizzazione, il potere per il maschio. Si è perso così l’occasione, in quella fase del femminismo, di insistere come la differenza sessuale generasse la forza dei legami, l’alternativa concreta di costruire la reciprocità delle relazioni intersoggettive, che prendevano forma proprio grazie alle diverse prospettive che aspiravano ad un confronto, al posto del conflitto. Il pensiero dialogico che sempre in quegli anni si imponeva all’attenzione della cultura finiva così per essere emarginato e sottovalutato: la carica rivoluzionaria del nuovo paradigma che faceva della differenza la causa e il fine proprio della prassi dialogica veniva colto come teoria romantica e inapplicabile nella post modernità. Si imponeva così un tipo di pensiero filosofico e teologico, rivolto a comporre la complessità del reale dentro l’unicità del sistema.
Sullo sfondo di questi diversi approcci teorici, sta comunque la comune percezione dell’oblio della filosofia e della cultura umanistica nei confronti dell’empiricità del darsi corporeo dell’essere femminile e dell’essere maschile, a favore di strutture teoriche universalizzanti, necessariamente astratte, liberate cioè da contaminazioni empiriche.
La linea del pensiero disincarnato, accanto alla negazione della corporeità del darsi del femminile e del maschile, segnava così il fallimento di ogni tentativo di interpretare la differenza, ogni differenza, come paradigma etico-antropologico. La risposta del femminismo radicale, alleatasi suo malgrado con la marcia rivendicazionista degli omosessuali, trovava in tal modo la strada in discesa: decostruire la differenza, sganciare il corpo dalla soggettività, il riconoscimento di sé dalla “natura”, significava ricercare la propria identità finalmente liberata dalla marcatura biologica verso il sogno di una uguaglianza generalizzata. Le teorie del Gender uscivano in tal modo dalla cerchia ristretta degli studi accademici, per diventare a rapidi passi cultura diffusiva, grazie anche alle potenti lobby omosessuali della moda e del cinema, che lentamente ma costantemente veicolavano figure asessuate o omosessuali sensibili, gradevoli, ormai liberate dall’ossessiva differenza…
Conviene chiedersi, a questo punto, che cosa in realtà sia questa “differenza”, che si esprime in modo emblematico nella differenza sessuale, se sia soltanto una scelta culturale oppure si fondi su di una realtà indubitabile, quella della “natura”, così come anche è approvato dal senso comune. Anche questa dimensione della vita ha subito nel tempo alterne vicende, per lo più segnate dalla paura della differenza che il dato naturale da sempre evidenziava: la natura infatti si impone con le sue leggi immutabili e imprendibili dalla mano dell’uomo, sinché la scienza con il suo braccio armato, la tecnologia, ha pensato di piegarla ai suoi fini. Siamo dentro l’avventura della post-modernità, ancora segnata dalla tensione a piegare la natura – madre maligna e riottosa – con gli strumenti tecnologici: un altro modo per riportare la differenza dentro i propri paradigmi. La natura soggetta all’uomo, perdeva progressivamente il suo carattere di “dato”, di realtà esterna e al contempo interna alla condizione umana, di “oggetto” posto al di là della mano rapace degli uomini. Ciò non significa, è ovvio, demonizzare le vie della scienza, ma solo sottolineare come la natura “data” implichi una sorta di passività da parte di chi, come l’uomo, la contempla e la gestisce. Quando guardo il tramonto del sole sul mare, so con certezza che domani, sia pure in forme straordinariamente diverse, questo evento ritornerà: in questo mio sguardo non vedo la natura come un dato statico, immutabile, ma come una dimensione della realtà continuamente identica e differente. La natura insomma mi si offre nella sua inesplicabile differenza e questa, più che un oggetto da manipolare, dovrebbe divenire nella coscienza di tutti un dato da accettare, come sostiene molta ecologia ambientale.
Rileggere i primi capitoli di Genesi in tale prospettiva, è ridire ciò che lo stesso Aristotele e tutta la tradizione filosofica realista ha sempre detto: la natura ha in sé delle leggi interne, delle logiche proprie che esprimono il bisogno di realizzazione di tutte le sue potenzialità. La natura differente dei due sessi si iscrive a questo bisogno naturale di proiezione verso le sue interne finalità: il legame di amore della coppia e la propagazione della specie, così come si realizza in tutto l’universo. Voler mutare queste leggi, significa, ancora una volta, piegare la natura alle proprie condizioni: è ancora l’uomo tecnologico che riporta tutto a sé, dentro quella indiscussa logica che oggi è diventata la scienza, le cui espressioni tecnologiche si impongono come “valori non negoziabili”, mai messi in discussione, sempre accettati come unica forma di verità. Si dirà al riguardo che questa è una delle tante interpretazioni della realtà, che oggi viviamo in un clima pluralista e che è “naturale” avere opinioni diverse, così come un sano relativismo impone. E’ comunque necessario – anche per questa questione – chiarire i termini: il pluralismo è realtà assai diversa dal relativismo. Quest’ultimo afferma che principi, valori, giudizi morali sono validi soltanto all’interno del proprio gruppo di riferimento, e non possono essere giudicati da presunte autorità esterne, anche se danno luogo a pratiche ingiuste. Il relativismo, in altri termini, non pretende il riconoscimento, né si vuol far carico delle alterità differenti, eliminando così ogni confronto: se ogni risposta è giusta, ognuno sceglie i propri valori di riferimento, stando ciascuno al proprio posto (identità statiche), e pretendendo al contrario legittimità normativa e politica alle proprie convinzioni. Più vicino alle politiche dell’identità, diventa così un mezzo per tutelare chi fa più rumore, che è più disposto a mobilitarsi, coinvolgendo l’opinione pubblica e rifiutando un criterio oggettivo sul quale misurarsi. Ne deriva una situazione sociale perennemente conflittuale, che genera spaccature e risentimenti: chi pone principi di verità condivisibili e razionalmente riconosciuti viene tacciato di intolleranza e le altrui verità vengono condannate come banali “credenze”. Nulla a che vedere con il pluralismo che riconosce la legittimità giuridica e politica dei singoli componenti o gruppi sociali, religiosi o politici, tutti ugualmente chiamati a partecipare alla vita pubblica, che è sempre oltre lo statalismo e oltre l’individualismo, che sono i termini politici per dire la paura della differenza. Aprire un dibattito su questi temi non significa perciò fronteggiarsi uno contro l’altro, perché alla fine il più forte vinca. Significa lottare contro il relativismo, perché ogni identità sessuata (che è più del sesso di ciascuno) si esprima nel rispetto della comune naturalità e nel recupero di strumenti argomentativi, sorretti da un sano esercizio della ragione discorsiva.

Paola Ricci Sindoni
Ordinario di Filosofia Morale Università di Messina
Presidente nazionale Associazione Scienza & Vita