Nel pensiero di S. Bonaventura

Evitare gli estremismi
S. Bonaventura dà molta importanza alla virtù della temperanza perché essa “doma” (cf S. Bonaventura, Collationes in Hexaemeron, VI, 29) una passione che accompagna l’uomo in tutta la sua vita che è quella di avere, trattenere (cupidigia o concupiscenza). Fin dall’infanzia l’uomo impara a dire mio ed è subito preso dal piacere del gusto. Da grande si lascia sedurre dal desiderio di possedere e provare piacere (cf Collatio V, 3).
Tuttavia non si pensi che per S. Bonaventura i beni terreni (la carriera, il denaro, il successo…) di per sé siano da disprezzare, ma caso mai da considerare nel loro valore relativo.
L’attaccamento a un bene parziale che viene enfatizzato fino a confonderlo con il bene assoluto è un disordine che produce squilibrio interiore. Tuttavia la temperanza non consiste nell’evitare gli eccessi da un punto di vista quantitativo, secondo la saggezza degli antichi, dando retta a quel medico “che diceva che colui che si astiene da ogni donna, non è virtuoso e non è nel giusto mezzo” (ibidem) con la conseguenza che – afferma S. Bonaventura che non manca di un fine senso dell’umorismo – “se il congiungersi con tutte le donne e il congiungersi con nessuna donna sono gli estremi, allora il giusto mezzo è congiungersi con la metà di tutte le donne” (ibidem).
Il pensatore francescano, invece, pone la temperanza sul piano qualitativo, poiché essa consiste nel rifuggire sia l’esaltazione delle cose come fossero fonte di felicità, sia il disprezzo delle medesime come fossero fonte di contaminazione (ibidem).

La virtù è nell’ordine dell’amore
S. Bonaventura, come S. Agostino, pone le virtù nell’“ordine dell’amore” ovvero nell’esercizio quotidiano del preferire, del prediligere (amare di più) e del posporre una cosa all’altra.
La virtù è sempre espressione di un modo giusto di amare, ben distinto da un modo disordinato di amare.
Chi è temperante trova il suo equilibrio amando tutte le cose nella luce di Cristo. La temperanza, come ogni virtù, non può essere disgiunta da un amore ordinato che è quello indicato da Cristo.
Papa Francesco nella “Fratelli tutti” ricorda che S. Bonaventura spiega che le virtù, senza la carità, “a rigore non adempiono i comandamenti come Dio li intende” (FT 91). Infatti S. Paolo dice: “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità… non sono nulla” (1Cor 13,2).
Sulla scia di S. Paolo S. Bonaventura afferma che ogni virtù “è un nome vano” (S. Bonaventura, Della vita perfetta VII, in “I mistici” I, Bologna 1995, p. 459), se non è unita all’amore sommo per Dio.

Amare Dio in modo sommo
Ma come faccio ad amare Dio in modo sommo?
Quando S. Bonaventura parla di “amore sommo a Dio” intende una carità “per la quale s’ama Dio sopra ogni cosa ed il prossimo per amore di Dio” (ibidem).
Rifacendosi a San Giovanni Crisostomo, egli commenta le parole del Deuteronomio (6,5) riprese da Gesù nei Vangeli sinottici: “Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente” (Mt 22,37; cf Mc 12,30; Lc 10,27). “Il tuo cuore – spiega S. Bonaventura – non sia rivolto ad amare qualcosa più di Dio… nulla ti diletti più di Dio, non le bellezze mondane, non gli onori e neppure i tuoi cari… Se dunque ami qualche altra cosa, e per questo amore non fai progressi nell’amore di Dio, già non ami più Dio con tutto il cuore. E se vuoi bene a qualche cosa, e per amore di questa cosa trascuri i tuoi doveri e la causa di Cristo, già non ami più Dio con tutto il cuore” (S. Bonaventura, ibidem, p. 460).
E le parole: “Amerai il Signore tuo Dio con tutta l’anima” per S. Bonaventura vogliono dire: fa’ volentieri “non ciò che tu vuoi, non ciò che consiglia il mondo, non ciò che suggeriscono i sensi, ma ciò che tu sai che Dio vuole”, anche se ciò dovesse esporti alla morte (S. Bonaventura, ibidem, p. 461).
E ancora: “Amerai il Signore tuo Dio con tutta la mente” per S. Bonaventura vuol dire: amalo “con tutta la memoria senza dimenticarlo mai” (ibidem).

Uomini e donne rinnovati nella carità
La “carità è l’anima di tutte le virtù” (ibidem, p. 459).
Senza la carità anche la virtù diventa una forma di orgoglio, come si desume dalla definizione della temperanza data da Cicerone e riportata nelle Collationes in Hexaemeron (VI,15): “La temperanza è dominio fermo e moderato della ragione sulla libidine e gli altri movimenti disordinati dell’animo”. L’uomo saggio dell’antichità si pone su un piedistallo che lo distingue dai comuni mortali deboli e trascinati dalle passioni.
Ma anche S. Francesco sente il rischio di cadere nell’orgoglio, nella vanagloria suscitati dal possesso di una vita virtuosa, là dove dice: “La carne raccoglie lode dalle virtù e plauso, da parte della gente, dalle veglie e dalle preghiere. Niente lascia all’anima e anche dalle lacrime cerca profitto” (FF 718).
Sarà allora l’amore-carità a farci sperare di diventare uomini e donne nuovi, vincitori nelle tentazioni derivanti dall’orgoglio e dalla vanagloria.
La tempora di primavera con la celebrazione eucaristica e l’offerta dei doni (i fiori) annuncia il miracolo del rifiorire della vita nei campi e nei prati, ma è anche annuncio di un rinnovamento della vita dello spirito per la nascita di un uomo nuovo.
La primavera è anticipazione di una vita nuova. I frutti maturi verranno dopo; allo stesso modo la penitenza esprime un’attesa di pienezza vissuta nel corpo, oltre che nell’anima, come mancanza, perché ancora non godiamo della pienezza di vita che Cristo ci ha promesso alla fine dei tempi, quando anche il nostro corpo risorgerà e in Cristo, unico capo, saranno ricondotte tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra (cf Ef 1,10).
Lasciamoci, allora, convertire dal Signore e poniamo Cristo al centro della nostra vita, in attesa dei frutti spirituali che nascono dall’assunzione in noi delle sue azioni, per poter risorgere tutti insieme alla salvezza eterna nella gloria della Pasqua finale a cui il Signore ci chiama!

Lucia Baldo

Il Cantico
ISSN 1974-2339
Pubblicazione riservata