“La santa obbedienza confonde ogni volontà propria corporale e carnale” (FF 258)

“ Vivere in obbedienza”
La Regola di S. Francesco inizia con il richiamo all’obbedienza essenziale per vivere da frati minori (FF 4. 75), ma non disgiunta dallo spirito di fraternità: “I frati non abbiano… alcun potere e dominio soprattutto tra di loro… E nessuno sia chiamato priore, ma tutti allo stesso modo siano chiamati frati minori e l’uno lavi i piedi dell’altro” (FF 19. 23). Il servizio umile svolto in spirito di povertà è il senso della vera obbedienza: “… quanto più [coloro che sono costituiti sopra gli altri] si turbano se viene loro tolta la prelatura che se fosse loro tolto il compito di lavare i piedi, tanto più mettono in sé un tesoro fraudolento a pericolo della propria anima” (FF 152).
Non ci stupiamo, perciò, se l’obbedienza riguarda tutti i frati e non solo i sudditi verso i superiori.
Dice S. Bonaventura: “[S. Francesco] si impegnò a rimanere soggetto non solo ai superiori, ma anche agli inferiori, a tal punto che aveva l’abitudine di promettere obbedienza ad ogni compagno di viaggio, fosse stato anche il più semplice. In questo modo egli non comandava autoritariamente, alla maniera di un prelato; ma, alla maniera di un ministro e di un servo, ubbidiva per umiltà anche ai suoi sudditi” (FF 1351).
Questo non significa, però, che egli rinunciasse all’autorità sui suoi frati, come è scritto nel Testamento (FF 128) e nella Regola non Bollata: “E gli altri frati siano tenuti ad obbedire a frate Francesco e ai suoi successori” (FF 3). È in gioco la fedeltà al carisma francescano lasciato in eredità ai suoi frati.
La parola obbedienza dal latino – ob (dinanzi) audire – significa prestare ascolto. Ed è a questa radice etimologica che noi dobbiamo rifarci se vogliamo comprendere il linguaggio di S. Francesco per il quale l’obbedienza significa porsi in ascolto delle esigenze del fratello e favorire la sua crescita personale, in nome della carità.
Il Santo di Assisi non invade la personalità dell’altro: “Riteneva che si dovesse comandare in nome dell’obbedienza raramente e non scagliare da principio il dardo, che dovrebbe essere l’ultima arma: ‘Non si deve – ripeteva – mettere subito mano alla spada’. Ma chi non si affretta a eseguire il precetto dell’obbedienza, non teme Dio e non tiene in nessun conto gli uomini” (FF 737).
Sia l’autorità sia l’obbedienza non esistono per se stesse, ma acquistano valore in quanto esprimono fedeltà alla forma di vita promessa (cf Dizionario francescano, EMP, p. 1270).
S. Francesco offre un modello di comunicazione indiretta molto più persuasivo ed efficace della comunicazione diretta che è quella più diffusa e conosciuta: “Fa’ questo!” o “Non fare questo!”.
Egli si rivolge agli uomini raramente dando ordini, ma offrendo piuttosto un esempio di vita e proponendo le beatitudini evangeliche che indicano uno stato che non può essere imposto, ma solo conquistato personalmente mediante un cammino interiore di crescita nella libertà (cf FF 178/2; 178/3).

L’obbedienza caritativa
L’anello di congiunzione che unisce la carità all’obbedienza è dato dal condurre una vita da espropriati (cf 1Cor 13,5): “L’amore vero non cerca le cose proprie, cerca al contrario le cose proprie dell’altro. Il vero amore cerca, innanzitutto, di capire gli altri, le loro proprietà… Solo il vero amore ama ogni uomo secondo la sua peculiarità” (V.C. Bigi, Il linguaggio dell’amore, EF, pp. 66).
Invece generalmente noi cerchiamo nell’altro l’immagine di noi stessi. “Ma l’amore non cerca le cose proprie. Egli preferisce donare in modo che il dono sembri proprietà di colui che lo riceve. Infatti, in che cosa consiste l’aiuto che l’amore offre nel suo dono all’altro? Non consiste nell’aiutarlo ad essere se stesso, libero, indipendente, padrone di sé?” (ibidem, p. 67).
La vera obbedienza, ammonisce S. Francesco, richiede questa espropriazione: “Dice il Signore nel Vangelo: – Chi non avrà rinunciato a tutto ciò che possiede non può essere mio discepolo … –
Abbandona tutto ciò che possiede e perde il suo corpo, colui che offre tutto se stesso all’obbedienza nelle mani del suo prelato. E qualunque cosa fa o dice che egli sa non essere contro la volontà di lui, purché sia bene quello che fa, è vera obbedienza” (FF 148).
L’abbandono del “vero obbediente” è reso dal Celano nell’immagine di un “corpo morto” che “non mormora ovunque sia posto, non reclama se viene allontanato” (FF 736; cf FF 1107; 1736).
E se il prelato imponesse al suddito un’obbedienza contraria alla sua coscienza? In questo caso S. Francesco afferma: “E nessun uomo si ritenga obbligato dall’obbedienza a obbedire a qualcuno là dove si commette delitto o peccato” (FF 197).
Tuttavia il Santo ammonisce a non abbandonare quel prelato: “pur non obbedendogli, tuttavia non lo abbandoni” (FF 150). E se questo comportasse persecuzione da parte di alcuni, costoro dovranno essere amati ancora di più, per amore di Dio.
“Infatti chi sostiene la persecuzione piuttosto che volersi separare dai suoi fratelli, rimane veramente nella perfetta obbedienza, poiché offre la sua anima per i suoi fratelli” (ibidem).
Per giunta, fatta salva l’obbedienza alla propria coscienza, l’espropriazione dell’obbediente deve arrivare al punto che “…se qualche volta il suddito vede cose migliori e più utili di quelle che gli ordina il prelato, di sua spontanea volontà sacrifichi a Dio le sue e cerchi invece di adempiere con l’opera quelle del prelato. Infatti questa è obbedienza caritativa, perché soddisfa a Dio e al prossimo” (FF 149).
L’espressione “obbedienza caritativa” indica lo stretto legame che unisce l’obbedienza alla carità, espresso nella preghiera Saluto alle virtù: “Signora santa carità, il Signore ti salvi con tua sorella, la santa obbedienza” (FF 256). Questo legame si realizza quando l’obbedienza diviene segno della carità che unisce i fratelli tra di loro: “E nessun frate faccia del male o dica del male a un altro; ma piuttosto, per la carità che viene dallo Spirito, di buon volere si servano e si obbediscano vicendevolmente” (FF 20).

Obbedienza del corpo allo spirito
L’obbedienza, però, non è compito solo dei frati, bensì di tutti, come sembra sottolineare la Lettera ai fedeli (cf FF 197) che si rivolge: “a tutti i cristiani, religiosi, chierici e laici, uomini e donne, a tutti gli abitanti del mondo intero” (FF 179).
Tutti sono accomunati dal compito dell’obbedienza che “tiene il corpo di ciascuno mortificato per l’obbedienza allo spirito e al proprio fratello” (FF 258). Quando ciò avviene, ciascuno “è suddito e sottomesso a tutti gli uomini che sono nel mondo” (ibidem).
La V Ammonizione ricorda quanto “è sublime” la condizione in cui il Signore Dio ha posto l’uomo, in quanto lo ha “creato e formato a immagine del suo Figlio diletto secondo il corpo e a similitudine di lui secondo lo spirito” (FF 153). Ma perché il corpo sia “immagine del suo Figlio diletto”, occorre “avere in odio” il proprio corpo “con i vizi e i peccati” (cf FF178/1). L’attenzione è posta sui “vizi e i peccati” che impediscono al corpo di essere immagine trasparente del corpo di Cristo in obbedienza allo spirito.
Oggi nella società si esalta il “corpo umano splendente nella sua giovinezza, nella sua forza, con una disattenzione per il corpo che non è più nella pienezza. Il culto del corpo si esprime nel coltivare i valori vitali più che quelli spirituali” (L. Baldo [a cura di], Chi sono io? Per un nuovo umanesimo, Società Cooperativa Sociale Frate Jacopa, p. 81).
Ma non è questo il corpo che assomiglia al corpo di Cristo! Oggi spesso lo spirito è asservito al corpo e il corpo non è obbediente allo spirito per formare con esso un’unità.
In S. Francesco non vi è dualismo tra corpo e spirito, ma una riconciliazione, “una comunione, un incontro nell’unità, in quanto il corpo è unito in modo così sostanziale con lo spirito, da fare una realtà sola” (ibidem, p. 83) dalla quale soltanto possono nascere armonia e beatitudine.

L’obbedienza di tutte le creature al Creatore
Ma possiamo andare ancora oltre, poiché l’obbedienza riguarda non solo tutti gli uomini e le donne del mondo, bensì tutte le creature che sono tenute anch’esse ad obbedire al loro Creatore.
Tutte le creature hanno questo nome in quanto provengono dal Creatore. Esse hanno racchiusa in sé, in modi diversi, l’impronta del Creatore, per cui gli obbediscono proprio in ragione di questa loro appartenenza. E lo fanno anche meglio dell’uomo: “E tutte le creature che sono sotto il cielo, per parte loro servono, conoscono e obbediscono al loro Creatore meglio di te [o uomo]” (FF 154).
Se le creature primeggiano nell’obbedire al Creatore rispetto all’uomo, a quest’ultimo, però, è affidato un compito speciale che è quello di seguire da vicino come modello di obbedienza Cristo stesso nell’atto di deporre la sua volontà nella volontà del Padre. “E la volontà del Padre suo fu questa, che il suo Figlio benedetto e glorioso, che Egli ci ha donato ed è nato per noi, offrisse se stesso… in espiazione dei nostri peccati, lasciando a noi l’esempio perché ne seguiamo le orme” (FF 184).
Ed è in questo spirito che S. Francesco in punto di morte, tra grandi sofferenze, rende una dichiarazione di obbedienza alla volontà del Signore: “…è sempre stato ed è per me più caro, più dolce e più gradito ciò che al Signore mio Dio più piace avvenga in me, e alla sua volontà soltanto desidero costantemente e in tutto trovarmi concorde e obbediente” (FF 504).

Lucia Baldo