Stefano Zamagni

1. UN LIBRO PREZIOSO
img134Per una nuova democrazia è un libro prezioso, intrigante, particolarmente puntuale per il nostro tempo. Prezioso, perché affronta, in modo scevro da bizantinismi di sorta, un problema oggi di straordinaria rilevanza: il lento scivolamento, soprattutto avvertito in paesi quali Russia, Turchia, India e altri ancora, dalla democrazia alla “democratura”. Intrigante, perché fa comprendere, anche al non iniziato, il senso preciso della celebre affermazione di Hannah Arendt secondo cui “la democrazia non è una procedura, ma un costume”.
Afferente, perché riesce a spiegare, in modo eloquente, cosa implichi, nella pratica, l’abbandono della “democrazia a bassa intensità”. Occorre dunque essere grati a Mario Toso per questo suo ulteriore sforzo culturale, che completa l’opera di riflessione iniziata con la pubblicazione, nel 2006, del saggio Democrazia e libertà. Laicità oltre il neoilluminismo postmoderno e, nel 2010, del volume Riappropriarsi della democrazia.
Particolarmente azzeccata infine è stata la decisione di allegare al saggio presente un’Antologia di brani tratti dai discorsi e dagli scritti sul tema qui in questione degli ultimi tre pontefici, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Francesco.

2. SOCIETÀ POLITICA E SOCIETÀ CIVILE, LE DUE PARTI COSTITUTIVE DELLA SFERA PUBBLICA
Dei tanti fili di discorso che in questo saggio si intrecciano come in un ordito, posso qui seguirne solamente un paio. Dapprima, però, un chiarimento concettuale, che ha a che vedere con la distinzione tra società politica e società civile – le due parti costitutive della sfera pubblica. Come noto, due sono gli elementi basici della società civile: il principio sociale e l’orientamento universalista. Se fosse all’opera unicamente il primo elemento, la società civile non oltrepasserebbe i confini della sfera privata.
Il principio sociale, infatti, è essenzialmente un principio di auto-organizzazione che, proprio perché tale, non ha la forza per tradurre nella pratica il rispetto di criteri universalistici. Si rammenti, infatti, che la socialità, intesa come tendenza al vivere insieme, non è tipica dell’essere umano, essendo essa comune anche all’animale. Pertanto, ciò che dà valenza pubblica – non però politica beninteso, – alla società civile è il secondo elemento, quello universalista.
Secondo una concezione del genere, la società civile in quanto una delle due parti costitutive della sfera pubblica concorre non solo ad arricchire la dinamica sociale, ma soprattutto a scongiurare l’occorrenza di due rischi pericolosi, tra loro opposti quanto alle conseguenze, ma simili quanto al fondamento. Da un lato, il rischio del privatismo sociale (il bene del singolo è visto in opposizione a o, tutt’al più, in modo indipendente dal bene degli altri), e dall’altro, quello dello statalismo–totalista, (la politica statuale cerca di proteggersi dai corpi intermedi in nome dell’interesse nazionale o collettivo).
L’argomento ora abbozzato può essere generalizzato considerando le due visioni, oggi prevalenti nel dibattito di filosofia politica del modo di concepire il rapporto tra società politica e società civile. Si badi che, in origine, le due espressioni società politica e società civile erano sinonimi.
La Koinonìa politiké di Aristotele corrispondeva, infatti, alla civilis societas di cui parla Cicerone nel De Repubblica. È solo dal XVII secolo che si registra la separazione dei significati, tuttora in uso. Due gli approcci che da tale separazione hanno preso avvio. Rifacendomi alla ormai celebre distinzione del politologo americano M. Oakeshot, la scelta è tra politica come “enterprise association” e politica come “civil association”.
La prima concezione, che ha in Thomas Hobbes il capostipite e che presuppone in qualche grado almeno una visione della società di stampo organicistico, vede la politica come l’attività cui spetta di guidare la società in una direzione determinata. Con il che la sfera del politico viene a coincidere, di fatto, con la sfera del pubblico e questa con lo Stato-Leviatano. Per questa concezione della politica, i partiti sono assimilabili, al management di una grande impresa che deve sforzarsi di rendere compatibili le richieste delle varie classi di stakeholder nei confronti dell’impresa. La società civile è il luogo degli interessi particolaristici che possono bensì esprimersi liberamente, ma a condizione di non intralciare il lavoro e di non porre in discussione il ruolo guida degli apparati amministrativi dello Stato, espressione e luogo dell’universale.
L’altra concezione, invece, che si rifà all’ideale liberal-democratico della politica, e che ha in John Locke il suo primo e più efficace sistematizzatore, non accetta che lo spazio pubblico sia tutto occupato, senza scarti, dai partiti, i quali sono bensì attori indispensabili, ma non unici, in un palcoscenico nel quale recitano anche attori sociali e civili. Non accetta, cioè, che questi ultimi siano sussunti nei primi. E ciò per la fondamentale ragione che, nella società visualizzata da Locke, gli uomini sono capaci di socialità prima ancora di sottoscrivere il contratto sociale.

3. DEMOCRAZIA E MERCATO
Alla luce di quanto precede si riescono a comprendere i pesanti guasti generati dalla tesi della grande separazione, quella tra mercato e democrazia (o, più in generale, tra economia e politica). Da sempre la scienza economica sostiene che il successo e il progresso di una società dipendono crucialmente dalla sua capacità di mobilizzare e gestire la conoscenza che esiste, ed è dispersa tra tutti coloro che ne fanno parte. Infatti, il merito principale del mercato, inteso come istituzione socio-economica, è proprio quello di fornire una soluzione ottimale al problema della conoscenza.
Come già F. von Hayek ebbe a chiarire nel suo celebre saggio del 1937, al fine di incanalare in modo efficace la conoscenza locale, quella cioè di cui sono portatori i cittadini di una società, è necessario un meccanismo decentralizzato di coordinamento, e il sistema dei prezzi di cui il mercato basicamente consta è esattamente quel che serve alla bisogna. Questo modo di vedere le cose, assai comune tra gli economisti, tende tuttavia ad oscurare un elemento di centrale rilevanza.
Invero, il funzionamento del meccanismo dei prezzi, come strumento di coordinamento delle decisioni economiche, presuppone – come ha osservato Carlo Tognato – che i soggetti economici condividano e perciò comprendano la “lingua” del mercato. Ad esempio, pedoni e automobilisti si fermano di fronte al semaforo che segna il rosso perché condividono il medesimo significato della luce rossa. Se quest’ultima evocasse, per alcuni, l’adesione ad una particolare posizione politica e, per altri, un segnale di pericolo è evidente che nessun coordinamento sarebbe possibile, con le conseguenze di cui il mercato ha bisogno per assolvere al compito principale di cui sopra si è detto.
Il primo tipo è depositato in ciascun individuo ed è quello che – come bene chiarito dallo stesso F. von Hayek – può essere gestito dai normali meccanismi del mercato. Il secondo tipo di conoscenza, invece, è quella di tipo istituzionale che circola tra i gruppi di cui consta la società ed ha a che vedere con la lingua comune che consente ad una pluralità di individui di condividere i significati delle categorie di discorso che vengono utilizzate e di intendersi reciprocamente quando vengono in contatto.
Sappiamo bene che, in qualsiasi società coesistono molti linguaggi diversi, e il linguaggio del mercato è solamente uno di questi. Se questo fosse l’unico, non ci sarebbero problemi: per mobilizzare in modo efficiente la conoscenza locale di tipo individuale basterebbero gli usuali strumenti di mercato. Ma così non è, per la semplice ragione che le società contemporanee sono contesti multi-culturali nei quali la conoscenza di tipo individuale deve viaggiare attraverso confini linguistici ed è questo che pone difficoltà formidabili. Il pensiero neo-austriaco ha potuto prescindere da tale difficoltà assumendo, implicitamente, che il problema della conoscenza di tipo istituzionale di fatto non esistesse, ad esempio perché tutti i membri della società condividono il medesimo sistema di valori e accettano gli stessi principi di organizzazione sociale.
Ma quando così non è, come la realtà ci obbliga a prendere atto, si ha che per governare una società “multi-linguistica” è necessaria un’altra istituzione, diversa dal mercato, che faccia emergere quella lingua di contatto capace di far dialogare i membri appartenenti a diverse comunità linguistiche. Ebbene, questa istituzione è la democrazia deliberativa. Questo ci aiuta a comprendere perché il problema della gestione della conoscenza nelle nostre società di oggi, e quindi in definitiva il problema dello sviluppo, postula che due istituzioni – la democrazia e il mercato – siano poste nella condizione di operare congiuntamente, fianco a fianco.
Invece, la separazione tra mercato e democrazia che si è andata consumando nel corso dell’ultimo quarto di secolo sull’onda dell’esaltazione di un certo relativismo etico e di una esasperata mentalità individualistica, ha fatto credere – anche a studiosi avvertiti – che fosse possibile espandere l’area del mercato senza preoccuparsi di fare i conti con l’intensificazione del principio democratico. Come osserva Paolo Slongo “Tra potere pastorale e teologia economica”, (Filosofia Politica, 3, 2013), in un contesto in cui gli assetti politici appaiono sempre più orientati al mercato, la democrazia finisce col rappresentare un sistema per il governo degli interessi tra i loro portatori legittimi.
La conseguenza è sotto gli occhi di tutti: le autorità politiche appaiono oggi legittime solo sulla base della loro funzionalità e sulla base della loro capacità di assicurare una crescita elevata e duratura. Un processo al termine del quale la sovranità politica rischia di essere prodotta dalla crescita economica. (Si veda anche G. Agamben, Il regno e la Gloria. Per una genealogia dell’economia e del governo, Vicenza, Neri Pozza, 2007).

4. IMPLICANZE DELLA SEPARAZIONE TRA DEMOCRAZIA E MERCATO
Quale la seria implicazione della separazione di cui mi sto occupando? Se la democrazia, che è un bene fragile, va soggetta a lento degrado, può accadere che il mercato sia impedito di raccogliere e gestire in modo efficiente la conoscenza, e quindi può accadere che la società cessi di progredire, senza che ciò avvenga per un qualche difetto dei meccanismi del mercato, bensì per un deficit di democrazia. Ebbene, la crisi economico-finanziaria in corso è la migliore e più cocente conferma empirica di tale proposizione. Si pensi, per fare un solo esempio, alla prevalenza, nelle sfere sia economica sia politica, del corto termismo (short termism), dell’idea cioè secondo cui l’orizzonte temporale delle decisioni ha da essere il breve periodo. img81
La democrazia, invece, ha necessariamente di mira il lungo periodo. Se le preposizioni del mercato sono senza controsopra (senza gli altri; contro gli altri; sopra gli altri), quelle della democrazia sono con-per- in (con gli altri; per gli altri; negli altri).
Entrambe le implicazioni di cui ho appena detto sono a loro volta conseguenze del celebrato principio del NOMA (Non overlapping magisteria) per primo formulato in modo esplicito da Richard Whately, cattedratico di economia all’Università di Oxford nel 1829. Secondo il NOMA, i principi dell’etica avrebbero tanto impatto sulla scienza economica quanto ne hanno sulle leggi della fisica e della chimica e ciò a significare che la sfera dell’economia può prescindere da quelle dell’etica e della politica dal momento che essa possiede una sua propria autonomia assiologica che le deriva dal fatto che l’agire economico è di per sé orientato al bene.Anzi.
L’infiltrazione nell’area del mercato di valori appartenenti alle altre due aree potrebbe mettere a repentaglio il perseguimento del fine ultimo per il quale il mercato esiste: quello dell’efficienza. È in tal modo che il capitalismo è riuscito a far accettare il principio di realtà con cui si devono misurare coloro che operano nelle sfere della politica e dell’etica. Un assetto politico è accettabile se è funzionale all’efficienza; d’altro canto, una norma etica va applicata se favorisce la crescita economica.
Un importante esempio rivelatore, legalmente ammissibile la schiavitù volontaria: gli individui avevano il diritto di diventare schiavi se valutavano che il beneficio derivante dalla vendita della propria libertà era superiore al costo conseguente.
Non riconoscere un tale diritto, infatti, avrebbe significato rinunciare all’efficienza. (La legge verrà in seguito abrogata perché essa trovava applicazione alla sola popolazione nera e dunque era poco efficiente!).
Si può ora comprendere perché mercato e democrazia devono ricomporsi al fine di scongiurare il duplice pericolo dell’individualismo possessivo e dello statalismo centralistico. Si ha individualimo quando ogni membro della società vuol essere il tutto; si ha centralismo quando a voler essere il tutto è un singolo componente. Nell’un caso si esalta a tal punto la diversità da far morire l’unità del consorzio umano; nell’altro caso, per affermare l’uniformità si sacrifica la diversità. Discorso analogo – non simile – va fatto per quanto concerne l’urgenza di ricomporre la frattura tra mercato e etica.
Cosa troviamo al fondo di questo strappo? La tesi secondo cui la società liberal-individualista non persegue né cerca di imporre una specifica concezione del bene, ma si limita a fornire una struttura neutrale di diritti e libertà fondamentali che permette agli individui di perseguire liberamente i propri fini e di rispettare la libertà di scelta di tutti gli altri. Ne consegue che né i diritti individuali possono essere sacrificati a vantaggio del bene comune, né i principi di giustizia che specificano quei diritti possono essere basati su una qualche nozione di solidarietà. In buona sostanza, si può accettare la giustizia commutativa, ma nessuna concessione alla giustizia distributiva.

5. LA VIA DELLA DEMOCRAZIA DELIBERATIVA
Cosa può favorire l’armonizzazione tra mercato e democrazia? Non esito a rispondere che la via che giudico maggiormente pervia è quella della democrazia deliberativa. È oggi riconosciuto che è la diversa qualità del capitale istituzionale a determinare, in gran parte, le differenze di performance economica dei vari paesi, caratterizzati da dotazioni sostanzialmente simili di capitale fisico e di capitale umano. In altro modo, senza nulla togliere alla perdurante importanza dei fattori geograficonaturali e del capitale fisico, è un fatto che l’assetto istituzionale di un paese è, oggi, l’elemento che più di ogni altro spiega la qualità e l’intensità del processo di sviluppo di una determinata comunità.
Le istituzioni sono sia quelle politiche sia quelle economiche. L’esempio più rilevante delle prime è costituito dal modello di democrazia che una società intende adottare: elitistico-competitivo, oppure deliberativo. Con riferimento all’attuale passaggio d’epoca, il modello elitistico-competitivo di democrazia, i cui meriti storici sono fuori di ogni dubbio, non è più in grado di assicurare elevati tassi di crescita e di dilatare gli spazi di libertà dei cittadini. È piuttosto il modello deliberativo di democrazia la meta verso cui tendere.
Tre sono le caratteristiche essenziali del modello elitistico- competitivo dovuto a Max Weber e a Joseph Schumpeter. La democrazia è principalmente un metodo di selezione di un’elite che, essendo esperta, è capace di prendere le decisioni necessarie, date le circostanze. La democrazia è dunque la procedura per arrivare a selezionare, all’interno della società, coloro che sono in grado di prendere le decisioni di volta in volta richieste dal corpo politico.
La seconda caratteristica è quella di ostacolare gli eccessi di potere della leadership politica. Poiché il rischio della degenerazione e dell’abuso di autorità non può mai essere scongiurato, è opportuno inserire negli ingranaggi del potere “granelli di sabbia”. E quale modo migliore per conseguire un tale risultato di quello di far soffiare, sui partiti politici, il vento della competizione?
La terza caratteristica, infine, è che il modello in questione si qualifica per il suo orientamento alla crescita economica e al progresso della società. Si noti l’analogia: come nell’arena del mercato le regole della competizione economica servono ad assicurare un’efficiente allocazione delle risorse e quindi il più alto tasso possibile di sviluppo, così, alla stessa stregua, nella sfera politica i partiti gareggiano fra loro per vincere le elezioni massimizzando i rispettivi consensi e le regole della gara elettorale devono essere tali da impedire la formazione di grumi di potere, che favoriscano l’uno o l’altro dei contendenti.
In definitiva, l’idea di base del modello è che le imprese gestiscono i mercati e i governi regolano le imprese; d’altra parte, le burocrazie di vario tipo gestiscono l’amministrazione pubblica e il governo controlla e regola la burocrazia. Con il che è alla sfera della politica che è demandato il compito di tracciare il sentiero di marcia della società intera.
Notevoli sono stati i risultati positivi che questo modello di democrazia – con le sue molteplici varianti nazionali – ha consentito di ottenere a partire del secondo dopoguerra. Ma alcuni mutamenti di portata epocale – quali la globalizzazione e l’introduzione nel processo economico delle nuove tecnologie infotelematiche – l’hanno reso inadeguato, non più capace di far fronte alle nuove sfide. La democrazia deliberativa, invece, mostra di essere all’altezza della situazione. Basicamente, la ragione è che per tale modello non è ammissibile che il benessere, degli emarginati e degli svantaggiati dipenda – a seconda delle circostanze – dallo “stato benevolente” o dalle istituzioni del “capitalismo compassionevole”. Piuttosto, esso deve essere il risultato di strategie di inclusione nel circuito della produzione – e non della redistribuzione – della ricchezza.
Tre sono i caratteri essenziali del metodo deliberativo. Primo, la deliberazione riguarda le cose che sono in nostro potere. (Come insegnava Aristotele, non deliberiamo sulla luna o sul sole!). Dunque, non ogni discorso è una deliberazione, la quale è piuttosto un discorso volto alla decisione. Secondo, la deliberazione è un metodo per cercare la verità pratica e pertanto è incompatibile con lo scetticismo morale. In tale senso, la democrazia deliberativa non può essere una pura tecnica senza valori; non può ridursi a mera procedura per prendere decisioni.
Terzo, il processo deliberativo postula la possibilità dell’autocorrezione e quindi che ciascuna parte in causa ammetta, ab imis, la possibilità di mutare le proprie preferenze e le proprie opinioni alla luce delle ragioni addotte dall’altra parte.
Ciò implica che non è compatibile col metodo deliberativo la posizione di chi, in nome dell’ideologia o di interessi di parte, si dichiara impermeabile alle altrui ragioni. È in vista di ciò che la deliberazione è un metodo essenzialmente comunicativo, con il quale vince chi più convince e non già chi ottiene più consenso.
Certo, non pochi sono i nodi teorici e pratici che devono essere sciolti perché il modello di democrazia deliberativa possa costituire una alternativa pienamente accettabile rispetto a quella esistente. (In Italia, il primo ente ad aver approvato una legge regionale di democrazia deliberativa è stato la Regione Toscana con LR del 29/12/2008). Ma non v’è dubbio che la concezione deliberativa di democrazia, sia, oggi, la via che meglio di altre – riesce a affrontare i problemi dello sviluppo e del progresso dei nostri paesi. Ciò in quanto essa riesce a pensare alla politica come attività non solo basata sul compromesso e l’inevitabile tasso di corruzione che sempre lo accompagna, ma anche sui fini della convivenza stessa e dell’essere in comune. Una conferma empirica ci viene dalla vasta indagine condotta dalla World Bank in 37 paesi. (Si veda http://www.govindicators.org).
A parità di assetto legale e di condizioni economiche, più alta è la partecipazione dei cittadini ai forum deliberativi, ai sondaggi deliberativi, alle giurie popolari ecc., più alta è la qualità della vita dei cittadini, più elevata la credibilità dei governi, più alto l’indice di felicità pubblica.
(Per un resoconto dei risultati delmetodo deliberativo, che nulla ha a che vedere con la c.d. democrazia elettorale, rinvio aA. Floridia, Un’idea deliberativa della democrazia, Il Mulino, Bologna, 2017).

6. DALLA DSC UN MESSAGGIO DI SPERANZA
Come con forza sottolinea, più volteMario Toso, dalla Dottrina Sociale della Chiesa viene oggi un grande messaggio di speranza indirizzato a tutti coloro che né si riconoscono nella “cultura del piagnisteo” perché vedono la catastrofe incombente, né inclinano verso l’ottimismo disincantato di chi vede nella globalizzazione una sorta di marcia trionfale dell’umanità verso la sua completa realizzazione.
Il cristiano non può cadere in trappole del genere, perché sa che è proprio nelle fasi di forte crisi, cioè di passaggio, che si aprono spazi inattesi per la messa in cantiere di nuove progettualità. Come ricorda A. McIntyre, all’epoca della caduta dell’Impero Romano, le comunità cristiane desistettero dal tentativo di tenerlo in vita a forza.
Si misero, piuttosto, a creare luoghi di vita più umani e a progettare forme più avanzate di organizzazione sociale. Ebbe così inizio l’epoca delle Cattedrali e poi l’Umanesimo civile e il Rinascimento.

Stefano Zamagni
Economista, Ordinario di Economia Politica
all’Università di Bologna